Si potrebbe pensare che coloro che svolgono l’attività di operatore dell’emergenza: vigili del fuoco, forze dell’ordine, operatori del 118, volontari del soccorso ecc. sviluppino automaticamente abitudine all’impatto con le situazioni drammatiche in cui sono chiamati ad intervenire. Il livello di soglia entro il quale un evento a forte impatto emotivo è tollerabile, senza
determinare effetti significativamente disfunzionali sugli operatori che vi sono esposti, è certamente individuale e, ovviamente, è condizionato, oltre che da fattori personologici, dall’esperienza maturata nel tempo sul campo.
Rimane comunque immanente il rischio di superare questa soglia, anche senza rendersene conto, livello che nel singolo operatore può inoltre variare nel tempo, anche a causa del sommarsi di esperienze critiche sia di tipo lavorativo che attinenti alla vita privata. In alcuni di essi può determinarsi una errata percezione di incondizionata invulnerabilità, rinforzata da alcune culture organizzative che scoraggiano l’espressione emotiva, che viene letta come indice di debolezza incompatibile con lo svolgimento di quel particolare tipo di attività. Ancor più stigmatizzante risulta la necessità di un operatore di rivolgersi a professionisti della salute mentale in seguito ad una difficile esperienza di servizio.
L’intervento dei professionisti della salute mentale in questi casi non è sempre possibile, in quanto queste figure sono raramente presenti nelle organizzazioni preposte all’emergenza, né facilmente accettate dagli operatori, in particolar modo quelli appartenenti alle Forze di Polizia, che nutrono diffidenza nei confronti di tutti coloro che vengono identificati professionalmente con l’acronimo “psi”.
Questo spiega perché nella realtà statunitense e di molte polizie occidentali, il supporto tra “Pari”(Peer Support) è una risorsa organizzativa essenziale per la gestione dello stress post-eventi critici di servizio.
Intendiamo per Eventi critici quelle situazioni traumatiche in grado di sconvolgere le capacità di adattamento di un individuo con conseguente percezione di vulnerabilità e perdita di controllo, ad esempio:
– disastri naturali o provocati dall’uomo
– gravi incidenti automobilistici
– aggressioni personali violente
– suicidio di terzi significativi
– essere presi in ostaggio o rapiti
– diagnosi di malattie minacciose per la vita a carico del soggetto o stretti familiari.
Vengono definiti Eventi Critici di Servizio le situazioni a cui sono esposti particolarmente gli Operatori dell’Emergenza e che possono causare una traumatizzazione psichica, se:
a)il fatto è vissuto direttamente, e in questo caso gli individui colpiti sono considerati vittime primarie;
b)l’evento viene “sentito” per confronto emotivo e in questo caso i soggetti convolti vengono considerati vittime secondarie.
c)la situazione comporta un intervento a caldo sulla scena, e in questo caso le persone esposte vengono considerate vittime terziarie;
Per coloro che svolgono il loro servizio nell’ambito dei comparti sicurezza/giustizia si possono delineare gli scenari più diversi ed imprevedibili, ad esempio:
Eventi vissuti direttamente:
conflitti a fuoco in cui uno o più operatori, o altri soggetti(criminali o terzi) siano rimasti feriti o uccisi;
aggressione violenta subita in ordine pubblico, nel corso di un intervento per una lite, di una rivolta, di un tentativo di evasione;
attentati in qualità di vittima generica o specifica per l’attività istituzionale svolta;
essere presi in ostaggio durante una rapina, un’azione terroristica, una rivolta, un tentativo di evasione;
gravi incidenti in quanto equipaggio di un mezzo di servizio;
ricevere gravissime minacce personali a motivo del proprio ruolo di tutore della legge;
incarceramento conseguente a fatti di servizio.
Eventi vissuti a causa di un intervento di servizio:
– in caso di gravi incidenti stradali;
– in qualità di soccorritori in occasione di disastri naturali o provocati dall’uomo;
– in caso di suicidio o tentato suicidio messo in atto da un collega o da criminali in custodia;
– in caso di gravi incidenti o lesioni subite da colleghi per cui si sia prestata assistenza diretta;
– in caso d’intervento su scenari in cui uno o più operatori o altri soggetti (criminali o terzi) siano rimasti feriti o uccisi;
Eventi vissuti per confronto emotivo:
– venire a conoscenza della morte violenta per servizio o per gesto suicidario di colleghi a cui si era legati da rapporti di amicizia;
– venire a conoscenza di gravi minacce rivolte a membri della propria famiglia o di aggressioni personali violente subite dagli stessi per l’attività istituzionale svolta dal congiunto;
– venire a conoscenza di gravi abusi subiti da minori nel corso di indagini che includono il contatto con le vittime;
– comunicare la morte di un collega avvenuta in servizio alle persone care.
Il supporto tra “Pari” è parte integrante del modello di intervento CISM (Critical Incident Stress Management). Nella Polizia di Stato il “Pari” interviene all’interno di team di supporto psico-sociale composto anche da specialisti medici e psicologi, a seguito di eventi tragici di servizio.
Nel settembre del 2002, uno di noi, insieme ad un collega con cui condividevamo la passione e l’impegno per alleviare gli effetti dello stress traumatico vissuto dagli operatori di polizia, volammo a Columbia, nel South Carolina, per partecipare ad un’importante attività di supporto psicologico agli operatori di polizia di quello Stato ed ai loro coniugi, invitati dal prof. Roger Solomon, eminente psicologo statunitense, consulente di varie Agenzie governative e Dipartimenti di polizia, specialista in Psicologia dell’Emergenza e Psico-Traumatologia, Formatore internazionale di EMDR (Eyes Moviment Desensitation Reprocessing: Riprocessamento e Desensibilizzazione attraverso i Movimenti Oculari). Nei tre giorni in cui si svolse tale attività, denominata PCIS (Post-Critical Incident Seminar: Seminario post-incidente Critico), constatammo che erano di fondamentale importanza per il successo dell’iniziativa la presenza attiva di alcuni poliziotti, i “Peer” (Pari), che avendo già vissuto ed attraversato le sequele emotive di eventi critici di servizio, ed opportunamente formati in precedenza, svolgevano un ruolo decisivo nell’attivazione emozionale del gruppo, nel coinvolgimento dei partecipanti nei momenti esperenziali, nell’affiancamento durante le sedute individuali di decompressione emotiva attraverso la tecnica dell’EMDR.
L’interessantissima esperienza che il Dipartimento di Polizia del South Carolina ci permise di fare, grazie alla presentazione del prof. Roger Solomon, ci convinse di proporre l’istituzione di questa figura anche nella Polizia di Stato, da integrare nei team di supporto psicosociale costituiti già da psichiatri e psicologi di questa Istituzione. La proposta fu accolta e venne diramata una circolare per il reclutamento e la formazione di questa figura, in via sperimentale. Nella circolare veniva specificato che il prerequisito richiesto era l’aver vissuto un evento critico di servizio ed averlo superato emotivamente e che la mansione di “Pari” sarebbe stata svolta su base volontaria, in aggiunta agli incarichi già assegnati a ciascuno.
Nel novembre del 2003, dopo un’approfondita progettazione , presso la Scuola allievi Agenti di Roma, veniva svolta la fase selettiva(una settimana) ed immediatamente dopo, quella formativa(due settimane) del 1° corso sperimentale per il personale di polizia con mansione di “Pari”. Il corso venne realizzato in coincidenza casuale con l’eccidio di Nāşirīyah in Iraq. Il prof. Roger Solomon, a titolo gratuito, e confermando la grande vicinanza affettiva alla Polizia di Stato, già dimostrata in precedenza, offrì il suo contributo di esperienza e di competenza specifica, arricchendo in modo magistrale la fase formativa del corso. Anche negli anni successivi la Polizia di Stato ha avuto l’onore di vedere confermata totalmente detta disponibilità a titolo gratuito, insieme a quella, altrettanto generosa, del suo straordinario traduttore, il Dott. Silvio Cohen, per tutti i sei corsi finora svolti.
Perché il “Pari”?
– Per ovviare alla aprioristica sfiducia dei poliziotti nei confronti di tutto ciò che inizia con “Psi…”;
– Perché molti operatori delle Forze di Polizia hanno la convinzione che solo un collega può capirli davvero;
– Perché solo un “Pari” può essere il vero garante del “patto di confidenzialità” per i colleghi;
– Perché egli rappresenta un efficace conferma che l’interesse dei professionisti della salute mentale è davvero quello di aiutare;
– Perché tale figura è la dimostrazione convincente che l’Organizzazione è effettivamente interessata al benessere dei propri appartenenti;
– Perché il “Pari” può facilitare ai professionisti della salute mentale la comprensione concreta di come i poliziotti pensano, sentono e vivono la loro realtà professionale.
Chi è il “Pari”?
È un appartenente ai Ruoli che esercitano funzioni di Polizia, un poliziotto formato per dare supporto emozionale ai colleghi che hanno vissuto uno o più eventi critici di servizio
– È un Poliziotto che “ci è già passato”;
– Deve avere l’idoneità completa ai servizi di polizia;
– È un “volontario”;
– È stato selezionato e formato in modo specifico;
– Ha flessibilità mentale e relazionale;
– Sa riconoscere e gestire i propri stati di animo;
– Sa ascoltare e “stimolare” i colleghi a prendersi cura della propria salute psichica;
– Dimostra sincera comprensione e rispetto della soggettiva risposta emotiva dei colleghi all’evento critico vissuto.
Perché è “Pari”?
– Perchè appartiene alla stessa Istituzione dei soggetti coinvolti nell’evento critico (Parità situazionale e “culturale”);
– Perchè, a prescindere dalla qualifica, svolge lo stesso tipo di attività istituzionale (Parità operativa);
– Perché ha vissuto anch’egli Eventi critici di servizio (Parità esperenziale);
– Perché, quale componente del team di supporto , egli opera assieme ai professionisti della salute mentale con pari dignità, anche se con funzioni differenti (Parità valoriale).
Il “Pari”: funzioni
– Diffondere “dal basso” la cultura del supporto psicologico all’operatore di polizia, finalizzato alla gestione efficace dello stress da eventi critici di servizio;
– Partecipare all’attività formativa nei corsi di formazione per operatori con mansione di “Pari”;
– Acquisire informazioni relative ad eventi critici occorsi nel proprio ambito di competenza;
– Operare con il team di supporto cism per:
– Incontri individuali
– Defusing
– Debriefing
Conduzione diretta di interventi sul campo:
– Smobilitazione
– Defusing
Contribuire a mantenere una rete fra tutti i “Pari” dell’Istituzione presenti sul territorio.
I requisiti operativi del “Pari”
– Capacità d’intrattenere rapporti positivi con i colleghi;
– Buona capacità di ascolto acritico;
– Sensibilità ai problemi altrui;
– Comprensione degli aspetti etici dello specifico programma di supporto psicologico (soprattutto della confidenzialità);
– Disponibilità di tempo per l’addestramento e per adempimento dei doveri specifici;
– Disponibilità a seguire le linee guida del programma e ad accettare i relativi limiti;
– Disponibilità a confrontarsi con i professionisti della salute mentale e ad indirizzare alle specifiche strutture professionali i colleghi bisognosi di particolari “cure”;
– Assenza di situazioni di sovraccarico dovuto a rilevanti problemi personali;
– Disponibilità ad accettare incarichi a tempo determinato;
– Neutralità ideologica: avere come unico obiettivo il benessere dei colleghi senza condizionamenti da presupposti di ordine politico, culturale, religioso, sindacale.
Dal 2004 ad oggi la Polizia di Stato ha realizzato circa venti interventi di sostegno psicosociale effettuati con team di supporto composti da professionisti della salute mentale interni all’Istituzione integrati da Operatori “Pari”, indirizzati ai colleghi ed ai familiari di colleghi coinvolti in eventi critici di servizio.
La figura e l’esperienza del “Pari” è stata pubblicamente rappresentata per la prima volta nel 2007 in Italia con un Quaderno di psicotraumatologia: “Pari per sfide impari”, Ed. Nicodemo Maggiulli, Firenze, che grazie alla disponibilità dell’editore, per gli operatori della Polizia di Stato è consultabile e scaricabile in formato “pdf” sul portale “Doppiavela”, pagina: biblioteca/specialità/sanitaria, e successivamente nel Novembre del 2009 con un articolo pubblicato dalla Rivista Ufficiale della Polizia di Stato “Polizia Moderna”.
Attraverso i Corsi di formazione, si è avuto modo di incontrare poliziotti dotati di straordinarie risorse personali che, dopo aver vissuto eventi critici professionali – i quali in alcuni casi hanno permesso di ripercorrere i passaggi più dolorosi della recente storia italiana che hanno visto coinvolti operatori di polizia – hanno deciso, con grande spirito altruistico, di mettersi al servizio di colleghi nei momenti più difficili della loro storia lavorativa e personale.
Il loro contributo sul campo ha ampiamente confermato la validità dell’intuizione, già da tempo maturata da molte polizie occidentali, circa il ruolo strategico di poliziotti all’uopo formati per aiutare altri poliziotti in difficoltà.
Il loro coinvolgimento nel campo della Psicologia dell’Emergenza sta lentamente trasformando una cultura di diffidenza verso il settore “Psi” dell’Istituzione, e di sfiducia nella possibilità di ricevere un aiuto concreto nei momenti critici della vita professionale, in una progressiva consapevolezza della umana vulnerabilità degli operatori di polizia, e della conseguente necessità di un supporto specifico di carattere psicosociale.
L’esperienza nel suo complesso ha inoltre insegnato, anche ai professionisti della salute mentale, ad essere più ottimisti e, nonostante il fatto che gli operatori di polizia si confrontino quotidianamente con le peggiori brutture della società, a credere che non solo “Homo homini lupus” ma, anche e soprattutto, “Homo homini spes”.
Crediamo a questo punto di non aggiungere altro, se non il resoconto dell’intervento sul campo svolto da un pari, che storicamente ha rappresentato il primo evento critico in cui questa figura è stata impiegata nella Polizia di Stato nell’anno 2004.
“Sto facendo dei lavori di manutenzione sulla mia moto quando ad un tratto la stazione radio che ascolto trasmette la seguente notizia in breve: “Tre poliziotti gravemente feriti in Questura dallo scoppio di un ordigno”. Rimango bloccato con gli attrezzi in mano, incredulo dell’accaduto e mi trovo virtualmente catapultato all’istante negli uffici della Questura dove ho lavorato per anni immaginando cosa sia accaduto e chi possano essere i colleghi feriti.
Telefono subito ad una carissima collega, di servizio quel pomeriggio e con la quale ho lavorato molti anni, che con voce provata mi dice: “Non ti rendi conto, lo scoppio ha fatto saltare completamente le mani di ….( collega-amico con il quale ho svolto e concluso importanti operazioni di polizia premiate con lodi) ed ha ferito in faccia ed agli occhi gli altri due, adesso sono in sala operatoria ma la situazione è gravissima.”
L’unica mia risposta a quello che ascolto è: “Arrivo subito” , ed infatti mi tolgo la tuta da lavoro, prendo la macchina e corro all’ospedale distante trenta km. Durante il tragitto non faccio altro che pensare all’accaduto ed al fatto che l’evento si è verificato proprio dentro quegli uffici dove ho trascorso centinaia di ore e non avrei mai pensato che una simile cosa potesse accadere proprio lì, che consideravo uno dei posti più sicuri ed intoccabili.
Arrivato all’ospedale vedo la mia amica parlare con numerosi altri colleghi nel corridoio, nei pressi delle sale operatorie, percependo immediatamente tensione e preoccupazione; c’è un via vai agitato di medici ed infermieri ed ad un tratto intravedo il medico della Polizia. Intuisco subito dai suoi occhi grande preoccupazione, ed alla richiesta dei colleghi presenti sulle condizioni dei feriti riferisce che non sono in pericolo di vita, ma le ferite riportate sono gravissime, rientrando quasi subito in sala operatoria. Tutti rimangono in silenzio ed è in quel momento che sia la mia amica che gli altri si accorgono di me, quindi mi faccio coraggio, ci salutiamo, e mentre metto un braccio sulla spalla della collega chiedo come è successo. Tra i presenti vi è chi ha assistito al fatto, chi è giunto poco dopo, chi ha prestato i primi soccorsi ai colleghi cercando con mezzi di fortuna di fermare l’emorragia, ed ognuno mi racconta quello che ha visto, ma la cosa che mi colpisce di più è che tutti descrivono il luogo dell’accaduto con pareti e pavimenti completamente intrisi di sangue. È a questo punto che mi rendo conto che il cosiddetto “evento critico” non ha interessato solo i feriti, perché i racconti che ascolto colpiscono e scatenano profonde emozioni anche in me che non ho vissuto di persona l’evento, cominciando a riconoscere nei colleghi tutti quei comportamenti descritti ed analizzati durante lo svolgimento del corso di operatore con funzione di “pari”.
Finalmente i colleghi feriti escono dalla sala operatoria e riesco a scambiare con loro brevi parole soprattutto per far loro coraggio, rendendomi conto dell’effettiva gravità delle lesioni riportate; per tutti i colleghi presenti il fatto di poter vedere anche solo per un attimo i feriti fortunatamente riesce ad attenuare un po’ la tensione. Visto che la mia amica è fortemente provata da quello che è successo, dopo aver salutato gli altri colleghi, decido di accompagnarla in Questura per farle riprendere la sua autovettura. Arrivati lì voglio vedere dove è successo il fatto e mi trovo davanti ad un’immagine quasi surreale: sangue in terra e sui muri, lembi di tessuto umani sulle pareti, luoghi transennati. Vedere tutto quel sangue dentro quegli uffici dove in passato, anche con i colleghi feriti, ho condiviso ore ed ore di lavoro, mi congela. Usciamo quindi nel piazzale della Questura e la mia amica scoppia in lacrime: l’abbraccio cercando di tranquillizzarla, anche perché mi rendo conto che come tutti i colleghi in ospedale ha trattenuto le emozioni e soprattutto le lacrime. Continua a ripetermi con voce disperata: “Hai visto? Non è possibile, non ci credo” chiedendomi in continuazione il perché, scusandosi per quello sfogo che non ce la faceva più a trattenere. Cerco piano piano di tranquillizzarla, spiegandole che le cose purtroppo succedono anche a noi come agli altri ed è inutile massacrarsi con i “perché” mentre è assolutamente normale provare certe sensazioni ed avere reazioni come le sue, che sono reazioni normalissime di fronte ad eventi anormali, “assurdi”. Dopo averla tranquillizzata, decido comunque di seguirla con la mia macchina e accompagnarla a casa, in considerazione del suo stato d’animo e della non poca distanza da percorrere.
Tornato a casa mia mi metto a letto, ma non riesco a prendere sonno perché penso all’accaduto, a quello che ho visto e percepito, consapevole che non sarà semplice fare il “pari”. Non mi nascondo di avere paura al pensiero di dover affrontare i colleghi feriti, perché, ad un poliziotto che non sa ancora se ha perso per sempre in parte o in tutto l’uso delle mani, della vista o dell’udito, cosa gli dici?
La mattina seguente decido comunque di contattare gli Psicologi della Polizia a Roma, ma vengo anticipato dal loro direttore, il quale avendo avuto notizia dell’accaduto mi telefona per informarsi della situazione. Così gli riferisco quello che ho avuto modo di vedere e capire, mettendolo al corrente dell’effettiva gravità di quanto accaduto e che sto per andare nuovamente in ospedale per stare vicino ai feriti. Conveniamo di aggiornarci a breve per valutare lo sviluppo della situazione e le necessità che si andranno a configurare.
Mi reco nuovamente in ospedale e fortunatamente incontro nei corridoi del reparto il nostro medico della Polizia, persona di grande umanità e professionalità, che sapendo che ho appena terminato il corso “pari”, appena mi vede dice: “Sono contento che sei qua, dobbiamo cercare di star loro vicino il più possibile, perché oltre alla consapevolezza della gravità delle ferite riportate, ho paura che si stanno auto-colpevolizzando per l’accaduto”. Così, mi faccio coraggio, ed insieme a lui vado a trovare per primo il collega ferito al volto ed agli occhi. Mi accorgo che non può vederci a causa delle bende che gli coprono gli occhi, così entro nella stanza, lo saluto chiamandolo per nome e gli domando come va. Dopo essermi assicurato che mi ha riconosciuto e senza essere troppo invadente, inizio a parlare con lui in generale di cosa gli hanno detto i medici e di quello che è successo. Ma è solo dopo avergli raccontato quello che mi è accaduto durante il mio di incidente critico, che riusciamo a condividere veramente gli stati d’animo e le paure che egli ha provato in quel momento terribile.
Ci sono gli altri due colleghi feriti, e non nego di essere preoccupato entrando nella stanza del mio amico gravemente colpito alle mani: infatti so che i medici hanno dovuto amputare una gran parte delle dita della destra. Conoscendo bene il suo carattere, l’attaccamento e l’attenzione che ha per il lavoro, ho paura di trovarmi davanti ad un muro di cemento armato. Invece anche lui si dimostra contento di vedermi e, piano piano, riesce a raccontarmi quello che gli è accaduto e come comincia ad immaginare la nuova realtà che dovrà affrontare. In ospedale ho ancora la possibilità di incontrare e parlare nuovamente con i colleghi in visita ai feriti, molti dei quali hanno assistito ed interagito materialmente con l’accaduto. Allora cerco di spiegare che sono lì anche come collega “pari”. Realizzo che vi sono molti di loro che non hanno dormito e che non riescono ancora a farlo. Serpeggiano stati d’animo contrastanti: c’è chi non riesce ad accettare l’accaduto, chi è fortemente preoccupato delle condizioni dei feriti e del loro futuro, chi si rimprovera di qualcosa in più che avrebbe potuto fare. Così provo a raccontare le sensazioni e le paure provate durante il mio personale incidente critico, toccando con mano che effettivamente condividere le proprie esperienze vissute spinge gli altri a rivelare le loro emozioni. Così, quando tre giorni dopo l’evento arrivano da Roma gli psicologi Ugo e Patrizia, da me conosciuti durante la frequenza del corso di operatore con funzione di Pari e con i quali, subito dopo l’accaduto mi sono costantemente sentito al telefono, mi rendo conto che tutto quello che ho fatto fino a quel momento, con grande sforzo mentale e fisico, è stato fondamentale, perché adesso i feriti hanno accettato la nostra visita senza problemi ed ognuno parla di ciò che sta provando. La cosa che mi colpisce di più è l’assoluta spontaneità con cui Ugo, mentre il collega ferito alle mani, durante i saluti gli presenta il “moncone” della mano destra ma poi fa per ritirarlo subito, gli dice semplicemente: “Diamoci ‘sta mano” spezzando quel difficile attimo di tensione che si è generato.
Dopo l’incontro con i feriti in ospedale, nella giornata successiva rimaniamo in Questura a disposizione di quei colleghi che, informati della possibilità, decidano spontaneamente di incontrarci per parlare in gruppo dell’evento. Rimango colpito dal fatto che si presentano all’incontro in molti, tanto da dover organizzare un gruppo la mattina ed uno il pomeriggio. E’ difficile descrivere gli stati d’animo e le emozioni che si sprigionano dal racconto dell’evento in gruppo, perché si raggiunge una realtà “fotografica” inimmaginabile a priori: quel botto tremendo esploso fra la faccia e le mani di tre colleghi ha fatto veramente sentire loro la paura e la vulnerabilità che il “mestiere” ci porta a negare. Un collega fortemente coinvolto e provato dall’evento si alza dalla seggiola e decide di abbandonare il gruppo uscendo dalla stanza dove siamo seduti in cerchio, prontamente seguito da uno degli psicologi.
L’incontro è appena iniziato e mentre il collega è fuori con lo psicologo, un altro poliziotto, giunto in ritardo, chiede di poter partecipare. Viene invitato a sedersi in cerchio insieme a noi e, senza saperlo, occupa il posto del collega uscito. In un attimo realizzo che se quest’ultimo rientrando non trovasse la sedia dove sedersi in gruppo con noi, si potrebbero creare sensazioni di esclusione e di disinteresse da parte nostra. Quindi con molta tranquillità mi alzo e prendo un’altra seggiola posizionandola vicino a quella adesso occupata dal nuovo entrato. Poco dopo lo psicologo e il collega uscito rientrano sedendosi nuovamente in mezzo a noi senza accorgersi di nulla, se non del fatto che si è aggiunta una persona.
Al termine del secondo gruppo, uno dei partecipanti ci dice di non riuscire più a dormire dal giorno dell’evento, rivivendone in continuazione le fasi più dure: infatti è stato uno dei primi a soccorrere i feriti. Così Patrizia, con il consenso dell’interessato, decide di praticargli una procedura speciale denominata E.M.D.R., ed è incredibile vedere come riesca a fargli rivivere, passo passo, l’incidente critico, come se ne scorressero alla moviola i fotogrammi insieme all’audio. L’impatto è tale che a me, che collaboro per la realizzazione tecnica dell’intervento, sembra di vivere in prima persona le varie fasi dell’incidente: avviene così, sotto i miei occhi, la normalizzazione dello stato emotivo del collega.
Per concludere gli incontri con un momento di convivialità, grazie all’aiuto dell’ufficio sanitario della Questura, faccio trovare ai partecipanti bibite e pasticcini in modo da poter condividere un momento di serenità. Infatti continuiamo a chiacchierare del più e del meno, per la prima volta senza tutta quella tensione percepita nelle stesse persone nei giorni precedenti, potendo effettivamente riscontrare che la possibilità di esternare e confrontare i propri pensieri, ricordi ed emozioni con altri ha permesso di comprenderli, accettarli e normalizzarli.
Al termine della giornata è indispensabile per me parlare con Ugo e Patrizia così da poter tirare fuori le mie di emozioni, anche perché fino a quel momento mi sono caricato di tutte le informazioni e gli stati d’animo degli altri, senza poter invece scaricare i miei.
A distanza di alcune settimane dall’incidente, e precisamente dopo la dimissione dei colleghi, gli psicologi Ugo e Patrizia tornano principalmente per incontrare con me in gruppo i tre feriti, perché è importante poter parlare con loro fuori dalle mura dell’ospedale ed aiutarli a attivare le strategie necessarie a far fronte ai vari tipi di conseguenze che l’incidente ha provocato e comporterà nel futuro.
Oggi posso dire che non è stata cosa semplice fare quello che ho fatto: le mie emozioni sono state messe a dura prova, anche in considerazione del rapporto di amicizia che avevo con alcune delle persone coinvolte. Nei mesi successivi, ho sempre cercato di incontrare i colleghi senza essere invadente, organizzando insieme qualche cena, in modo da contribuire a che le cose potessero tornare piano piano alla normalità, ed a distanza di alcuni anni posso affermare che questo è effettivamente accaduto”.
Luigi Lucchetti, presidente on. di AIGESFOS-APS
Felix B. Lecce, presidente di AIGESFOS-APS