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L’Auto Mutuo Aiuto nelle Forze dell’Ordine e del Soccorso

Un Gruppo di Auto-Mutuo-Aiuto (GAMA) permette di condividere momenti di crisi della vita (malattie, eventi psicotraumatici, lutti, disturbi dell’umore, problemi affettivi, importanti problemi lavorativi, gravi tensioni relazionali) con altre persone che hanno attraversato o stanno attraversando esperienze simili. Ogni Gruppo si costituisce intorno a uno specifico problema/bisogno condiviso dai partecipanti e che rappresenta la ‘stella polare’ che guida lo sviluppo del Gruppo.

Scambiarsi esperienze e sentimenti in un GAMA ha un valore assoluto: al suo interno non esiste chi offre aiuto e chi lo riceve, ma è solo lo scambio alla pari che permette di trovare insieme la propria via d’uscita. Il Gruppo incentiva un atteggiamento positivo e attivo verso le difficoltà da affrontare, stimola ognuno a riconoscersi come risorsa per sé e per gli altri, permette di uscire dalla condizione di solitudine che spesso aggrava le difficoltà, offre un supporto emotivo, aiuta a trovare soluzioni personali per confrontarsi meglio con i problemi da gestire ed i bisogni da soddisfare e a vivere il tempo come una risorsa da impiegare vantaggiosamente per superare le difficoltà del presente e del passato e porsi con atteggiamento attivo e responsabile di fronte alle sfide dell’esistenza. 

Gli appartenenti alle Forze dell’Ordine e del Soccorso vivono all’interno di culture organizzative improntate alla riservatezza, quando non addirittura alla diffidenza verso persone esterne alle loro Istituzioni, alla repressione della manifestazione delle emozioni, alla credenza che solo loro “pari” possano capire fino in fondo i problemi che vivono sul lavoro o che si determinano nell’interfaccia tra vita pubblica e privata, il cui confine si embrica così tanto da impedire spesso una più salutare separazione tra vita personale e ruolo sociale. Reagire agli effetti stressanti prodotti da un evento psicotraumatico di servizio (interventi operativi in scenari particolarmente cruenti, operazioni di soccorso in caso di gravi calamità, grave vittimizzazione di minori o soggetti particolarmente vulnerabili, esperienza di imminente pericolo di vita..), confrontarsi con le disastrose e durature conseguenze di una “ingiusta” incriminazione, vivere lo stress del ritorno alla normalità per operatori lungamente impiegati sottocopertura in ambienti criminali o gestire la crisi da distacco dall’ambiente lavorativo- così particolare e totalizzante come quello degli operatori dell’emergenza- che il pensionamento comporta per molti di essi, sono esperienze così tipiche di questi operatori che sarebbe estremamente difficile trovare piena condivisione nell’ambito di GAMA già attivi nel contesto sociale generale. 

Non a caso in queste organizzazioni c’è la tendenza alla nascita di GAMA interni, in cui i membri sono “pari due volte”: appartengono allo stesso ambiente e cultura organizzativi e condividono lo stesso problema o bisogno. 

Mentre alcuni GAMA sono totalmente autogestiti, altri prevedono una figura che, almeno in alcune fasi della vita del Gruppo, ne aiuta il percorso. Si tratta del facilitatore (helper, catalizzatore, servitore) ovvero la persona che contribuisce attraverso le sue capacità personali e/o professionali, a facilitare il buon funzionamento del Gruppo. Si dibatte sulla possibilità di aprire i GAMA a facilitatori che non condividono il problema comune agli altri partecipanti. Nell’ambito delle Forze di Polizia e del Soccorso si pone un secondo quesito: se il facilitatore debba condividere o meno l’appartenenza all’organizzazione di cui fanno parte gli altri membri del Gruppo.

Sebbene si registri un forte bisogno di forme di aiuto extraprofessionale (non medicalizzato, né psicologizzato) e di condivisione supportiva di situazioni problematiche relative all’ambiente lavorativo che diventano sempre più pressanti e logoranti, nell’ambito delle Forze dell’Ordine e del Soccorso italiane non si è ancora diffusa una cultura dell’AutoMutuoAiuto,

AIGESFOS ritiene che promuovere la nascita di GAMA ‘interni’ possa rispondere concretamente ai bisogni maggiormente sentiti da questi Operatori. 

Il supporto tra pari: storia e “stato dell’arte” di un progetto ambizioso.

Si potrebbe pensare che coloro che svolgono l’attività di operatore dell’emergenza: vigili del fuoco, forze dell’ordine, operatori del 118, volontari del soccorso ecc. sviluppino automaticamente abitudine all’impatto con le situazioni drammatiche in cui sono chiamati ad intervenire. Il livello di soglia entro il quale un evento a forte impatto emotivo è tollerabile, senza
determinare effetti significativamente disfunzionali sugli operatori che vi sono esposti, è certamente individuale e, ovviamente, è condizionato, oltre che da fattori personologici, dall’esperienza maturata nel tempo sul campo.
Rimane comunque immanente il rischio di superare questa soglia, anche senza rendersene conto, livello che nel singolo operatore può inoltre variare nel tempo, anche a causa del sommarsi di esperienze critiche sia di tipo lavorativo che attinenti alla vita privata. In alcuni di essi può determinarsi una errata percezione di incondizionata invulnerabilità, rinforzata da alcune culture organizzative che scoraggiano l’espressione emotiva, che viene letta come indice di debolezza incompatibile con lo svolgimento di quel particolare tipo di attività. Ancor più stigmatizzante risulta la necessità di un operatore di rivolgersi a professionisti della salute mentale in seguito ad una difficile esperienza di servizio.

L’intervento dei professionisti della salute mentale in questi casi non è sempre possibile, in quanto queste figure sono raramente presenti nelle organizzazioni preposte all’emergenza, né facilmente accettate dagli operatori, in particolar modo quelli appartenenti alle Forze di Polizia, che nutrono diffidenza nei confronti di tutti coloro che vengono identificati professionalmente con l’acronimo “psi”.

Questo spiega perché nella realtà statunitense e di molte polizie occidentali, il supporto tra “Pari”(Peer Support) è una risorsa organizzativa essenziale per la gestione dello stress post-eventi critici di servizio.
Intendiamo per Eventi critici quelle situazioni traumatiche in grado di sconvolgere le capacità di adattamento di un individuo con conseguente  percezione di  vulnerabilità e  perdita di controllo, ad esempio:

–  disastri naturali o provocati dall’uomo
–  gravi incidenti automobilistici
–  aggressioni personali violente
–  suicidio di terzi significativi
–  essere presi in ostaggio o rapiti
–  diagnosi di malattie minacciose per la vita a carico del soggetto o stretti familiari.

Vengono definiti Eventi Critici di Servizio le situazioni a cui sono esposti particolarmente gli Operatori dell’Emergenza e che possono causare una traumatizzazione psichica, se:

a)il fatto è vissuto direttamente, e in questo caso gli individui colpiti sono considerati vittime primarie;
b)l’evento viene “sentito” per confronto emotivo e in questo caso i soggetti convolti vengono considerati vittime secondarie.
c)la situazione comporta un intervento a caldo sulla scena, e in questo caso le persone esposte vengono considerate vittime terziarie;
Per coloro che svolgono  il loro servizio nell’ambito dei comparti sicurezza/giustizia si possono delineare gli scenari più diversi ed imprevedibili, ad esempio:

Eventi vissuti direttamente:
conflitti a fuoco in cui uno o più operatori, o altri soggetti(criminali o terzi) siano rimasti feriti o uccisi;
aggressione violenta subita in ordine pubblico,  nel corso di un intervento per una lite, di una rivolta, di un tentativo di evasione;
attentati in qualità di vittima generica o specifica per l’attività istituzionale svolta;
essere presi in ostaggio durante una rapina, un’azione terroristica, una rivolta, un tentativo di evasione;
gravi incidenti in quanto equipaggio di un mezzo di servizio;
ricevere gravissime minacce personali a motivo del proprio ruolo di tutore della legge;
incarceramento conseguente a fatti di servizio.
Eventi vissuti a causa di un intervento di servizio:

– in caso di gravi incidenti stradali;
– in qualità di soccorritori in occasione di disastri naturali o provocati dall’uomo;
– in caso di suicidio o tentato suicidio messo in atto da un collega o da criminali in custodia;
– in caso di gravi incidenti o lesioni subite da colleghi per cui si sia prestata assistenza diretta;
– in caso d’intervento su scenari in cui uno o più operatori o altri soggetti (criminali o terzi) siano rimasti feriti o uccisi;

Eventi vissuti per confronto emotivo:
– venire a conoscenza della morte violenta per servizio o per gesto suicidario di colleghi a cui si era legati da rapporti di amicizia;
– venire a conoscenza di gravi minacce rivolte a membri della propria famiglia o di aggressioni personali violente subite dagli stessi per l’attività istituzionale svolta dal congiunto;
– venire a conoscenza di gravi abusi subiti da minori nel corso di indagini che includono il contatto con le vittime;
– comunicare la morte di un collega avvenuta in servizio alle persone care.
Il supporto tra “Pari” è parte integrante del modello di intervento CISM (Critical Incident Stress Management). Nella Polizia di Stato il “Pari” interviene all’interno di team di supporto psico-sociale composto anche da specialisti medici e psicologi, a seguito di eventi tragici di servizio.

Nel settembre del 2002, uno di noi, insieme ad  un collega con cui condividevamo la passione e l’impegno per alleviare gli effetti dello stress traumatico vissuto dagli operatori di polizia, volammo a Columbia, nel South Carolina, per partecipare ad un’importante attività di supporto psicologico agli operatori di polizia di quello Stato ed ai loro coniugi, invitati dal prof. Roger Solomon, eminente psicologo statunitense, consulente di varie Agenzie governative e Dipartimenti di polizia, specialista in Psicologia dell’Emergenza e Psico-Traumatologia, Formatore internazionale di EMDR (Eyes Moviment Desensitation Reprocessing: Riprocessamento e Desensibilizzazione attraverso i Movimenti Oculari). Nei tre giorni in cui si svolse tale attività, denominata PCIS (Post-Critical Incident Seminar: Seminario post-incidente Critico), constatammo che erano di fondamentale importanza per il successo dell’iniziativa la presenza attiva di alcuni poliziotti, i “Peer” (Pari), che avendo già vissuto ed attraversato le sequele emotive di eventi critici di servizio, ed opportunamente formati in precedenza, svolgevano un ruolo decisivo nell’attivazione emozionale del gruppo, nel coinvolgimento dei partecipanti nei momenti esperenziali, nell’affiancamento durante le sedute individuali di decompressione emotiva attraverso la tecnica dell’EMDR.

L’interessantissima esperienza che il Dipartimento di Polizia del South Carolina ci permise di fare, grazie alla presentazione del prof. Roger Solomon, ci convinse di proporre l’istituzione di questa figura anche nella Polizia di Stato, da integrare nei team di supporto psicosociale costituiti già da psichiatri e psicologi di questa Istituzione. La proposta fu accolta e venne  diramata  una circolare per il reclutamento e la formazione di questa figura, in via sperimentale. Nella circolare veniva specificato che il prerequisito richiesto era l’aver vissuto un evento critico di servizio ed averlo superato emotivamente e che la mansione di “Pari” sarebbe stata svolta su base volontaria, in aggiunta agli incarichi già assegnati a ciascuno.

Nel novembre del 2003, dopo un’approfondita progettazione , presso la Scuola allievi Agenti di Roma, veniva svolta la fase selettiva(una settimana) ed immediatamente dopo, quella formativa(due settimane) del 1° corso sperimentale per il personale di polizia con mansione di “Pari”. Il corso venne realizzato in coincidenza casuale con l’eccidio di Nāşirīyah in Iraq. Il prof. Roger Solomon,  a titolo gratuito, e confermando la grande vicinanza affettiva alla Polizia di Stato, già dimostrata in precedenza, offrì il suo contributo di esperienza e di competenza specifica, arricchendo in modo magistrale la fase formativa del corso. Anche negli anni successivi la Polizia di Stato ha avuto l’onore di vedere confermata totalmente detta disponibilità a titolo gratuito, insieme a quella, altrettanto  generosa, del suo straordinario traduttore, il Dott. Silvio Cohen, per tutti i sei corsi finora svolti.

Perché il “Pari”?
–  Per ovviare alla aprioristica sfiducia dei poliziotti nei confronti di tutto ciò che inizia con “Psi…”;
–  Perché molti operatori delle Forze di Polizia hanno la convinzione che solo un collega può capirli davvero;
–  Perché solo un “Pari” può essere il vero garante del “patto di confidenzialità” per i colleghi;
–  Perché egli rappresenta un efficace conferma che l’interesse dei professionisti della salute mentale è davvero quello di aiutare;
–  Perché tale figura è la dimostrazione convincente che l’Organizzazione è effettivamente interessata al benessere dei propri appartenenti;
–  Perché il “Pari” può facilitare ai professionisti della salute mentale la comprensione concreta di come i poliziotti pensano, sentono e vivono la loro realtà professionale.

Chi è il “Pari”?
È un appartenente ai Ruoli che esercitano funzioni di Polizia, un poliziotto formato per dare supporto emozionale ai colleghi che hanno vissuto uno o più eventi critici di servizio
– È un Poliziotto che “ci è già passato”;
– Deve avere l’idoneità completa ai servizi di polizia;
– È un “volontario”;
– È stato selezionato e formato in modo specifico;
– Ha flessibilità mentale e relazionale;
– Sa riconoscere e gestire i propri stati di animo;
– Sa ascoltare e “stimolare” i colleghi a prendersi cura della propria salute psichica;
– Dimostra sincera comprensione e rispetto della soggettiva risposta emotiva dei colleghi all’evento critico vissuto.

Perché è “Pari”?
– Perchè appartiene alla stessa Istituzione dei soggetti coinvolti nell’evento critico (Parità situazionale e “culturale”);
– Perchè, a prescindere dalla qualifica, svolge lo stesso tipo di attività istituzionale (Parità operativa);
– Perché ha vissuto anch’egli Eventi critici di servizio (Parità esperenziale);
– Perché, quale componente del team di supporto , egli opera assieme ai professionisti della salute mentale con pari dignità, anche se con funzioni differenti (Parità valoriale).
Il “Pari”: funzioni
– Diffondere “dal basso” la cultura del supporto psicologico all’operatore di polizia, finalizzato alla gestione efficace dello stress da eventi critici di servizio;
– Partecipare all’attività formativa nei corsi di formazione per operatori con mansione di “Pari”;
– Acquisire  informazioni relative ad eventi critici occorsi nel proprio ambito di competenza;
– Operare con il team di supporto cism per:
– Incontri individuali
– Defusing
– Debriefing
Conduzione diretta di interventi sul campo:
– Smobilitazione
– Defusing
Contribuire a mantenere una rete fra tutti i “Pari” dell’Istituzione presenti sul territorio.
I requisiti operativi del “Pari”
– Capacità d’intrattenere rapporti positivi con i colleghi;
– Buona capacità di ascolto acritico;
– Sensibilità ai problemi altrui;
– Comprensione degli aspetti etici dello specifico programma di supporto psicologico (soprattutto della confidenzialità);
– Disponibilità di tempo per l’addestramento e per adempimento dei doveri specifici;
– Disponibilità a seguire le linee guida del programma e ad accettare i relativi limiti;
– Disponibilità a confrontarsi con i professionisti della salute mentale e ad indirizzare alle specifiche strutture professionali i colleghi bisognosi di particolari “cure”;
– Assenza di situazioni di sovraccarico dovuto a rilevanti problemi personali;
– Disponibilità ad accettare incarichi a tempo determinato;
– Neutralità ideologica: avere come unico obiettivo il benessere dei colleghi senza condizionamenti da presupposti di ordine politico, culturale, religioso, sindacale.
Dal 2004 ad oggi la Polizia di Stato ha realizzato circa venti interventi di sostegno psicosociale effettuati con team di supporto composti da professionisti della salute mentale interni all’Istituzione integrati da Operatori “Pari”, indirizzati ai colleghi ed ai familiari di colleghi coinvolti in eventi critici di servizio.

La figura e l’esperienza del “Pari” è stata pubblicamente rappresentata per la prima volta nel 2007 in Italia con un Quaderno di psicotraumatologia:  “Pari per sfide impari”, Ed. Nicodemo Maggiulli, Firenze, che grazie alla disponibilità dell’editore,  per gli operatori della Polizia di Stato è consultabile e scaricabile in formato “pdf” sul portale “Doppiavela”, pagina: biblioteca/specialità/sanitaria, e successivamente nel Novembre del 2009 con un articolo pubblicato dalla Rivista Ufficiale della Polizia di Stato “Polizia Moderna”.

Attraverso i Corsi di formazione, si è avuto modo di incontrare poliziotti dotati di straordinarie risorse personali che, dopo aver vissuto eventi critici professionali – i quali in alcuni casi  hanno permesso di ripercorrere i passaggi più dolorosi della recente storia italiana che hanno visto coinvolti operatori di polizia – hanno deciso, con grande spirito altruistico, di mettersi al servizio di colleghi nei momenti più difficili della loro storia lavorativa e personale.

Il loro contributo sul campo ha ampiamente confermato la validità dell’intuizione, già da tempo maturata da molte polizie occidentali, circa il ruolo strategico di poliziotti all’uopo formati per aiutare altri poliziotti in difficoltà.

Il loro coinvolgimento nel campo della Psicologia dell’Emergenza sta lentamente trasformando una cultura di diffidenza verso il settore “Psi” dell’Istituzione,  e di sfiducia nella possibilità di ricevere un aiuto concreto nei momenti critici della vita professionale, in una progressiva consapevolezza della umana vulnerabilità degli operatori di polizia, e della conseguente necessità di un supporto specifico di carattere psicosociale.

L’esperienza nel suo complesso  ha inoltre insegnato, anche ai professionisti della salute mentale, ad essere più ottimisti e,  nonostante il fatto che gli operatori di polizia si confrontino quotidianamente con le peggiori brutture della società, a credere che non solo “Homo homini lupus” ma, anche e soprattutto, “Homo homini spes”.

Crediamo a questo punto di non aggiungere altro, se non il resoconto dell’intervento sul campo svolto da un pari, che storicamente ha rappresentato  il primo evento critico in cui questa figura è stata impiegata nella Polizia di Stato nell’anno 2004.

“Sto facendo dei lavori di manutenzione sulla mia moto quando ad un tratto la stazione radio che ascolto trasmette la seguente notizia in breve: “Tre poliziotti gravemente feriti in Questura dallo scoppio di un ordigno”. Rimango bloccato con gli attrezzi in mano, incredulo dell’accaduto e mi trovo virtualmente catapultato all’istante  negli uffici della Questura dove ho lavorato per anni immaginando cosa sia accaduto e chi possano essere i  colleghi feriti.
Telefono subito ad una carissima collega, di servizio quel pomeriggio e con la quale ho lavorato molti anni, che con voce provata mi dice: “Non ti rendi conto, lo scoppio ha fatto saltare completamente le mani di ….( collega-amico con il quale ho svolto e concluso  importanti operazioni di polizia premiate con lodi) ed ha ferito in faccia ed agli occhi gli altri due, adesso sono in sala operatoria ma la situazione è gravissima.”
L’unica mia risposta a quello che ascolto è: “Arrivo subito” , ed infatti mi tolgo la tuta da lavoro, prendo la macchina e corro all’ospedale distante trenta km. Durante il tragitto non faccio altro che pensare all’accaduto ed al fatto che l’evento si è verificato proprio dentro quegli uffici dove ho trascorso centinaia di ore e non avrei mai pensato che una simile cosa potesse accadere proprio lì, che consideravo uno dei posti più sicuri ed intoccabili.
Arrivato all’ospedale vedo la mia amica parlare con numerosi altri colleghi nel corridoio, nei pressi delle sale operatorie, percependo immediatamente tensione e preoccupazione; c’è un via vai agitato di medici ed infermieri ed ad un tratto intravedo il medico della Polizia. Intuisco subito dai suoi occhi grande preoccupazione, ed alla richiesta dei colleghi presenti sulle condizioni dei feriti  riferisce che non sono in pericolo di vita, ma le ferite riportate sono gravissime, rientrando quasi subito in sala operatoria. Tutti rimangono in silenzio ed è in quel momento che sia la mia amica che gli altri si accorgono di me, quindi mi faccio coraggio, ci salutiamo, e mentre metto un braccio sulla spalla della collega chiedo  come è successo.  Tra i presenti vi è chi ha assistito al fatto, chi è giunto poco dopo, chi ha prestato i primi soccorsi ai colleghi cercando con mezzi di fortuna di fermare l’emorragia, ed ognuno mi racconta quello che ha visto, ma la cosa che mi colpisce di più è che tutti descrivono il luogo dell’accaduto con pareti e pavimenti completamente intrisi di sangue. È a questo punto che mi rendo conto che il cosiddetto “evento critico” non ha interessato solo i feriti, perché i racconti che ascolto colpiscono e scatenano profonde emozioni anche in me che non ho vissuto di persona l’evento, cominciando a riconoscere nei colleghi tutti quei comportamenti descritti ed analizzati durante lo svolgimento del corso di operatore con funzione di “pari”.
Finalmente i colleghi feriti escono dalla sala operatoria e riesco a scambiare con loro brevi parole soprattutto per far loro coraggio, rendendomi conto dell’effettiva gravità delle lesioni riportate;  per tutti i colleghi presenti  il fatto di poter vedere anche solo per un attimo i feriti fortunatamente riesce ad attenuare un po’ la  tensione. Visto che la mia amica è fortemente provata da quello che è successo, dopo aver salutato gli altri colleghi, decido di accompagnarla in Questura per farle riprendere la sua autovettura. Arrivati lì voglio vedere dove è successo il fatto e mi trovo davanti ad un’immagine quasi surreale: sangue in terra e sui muri, lembi di tessuto umani sulle pareti, luoghi transennati. Vedere tutto quel sangue dentro quegli uffici dove in passato, anche con i colleghi feriti, ho condiviso ore ed ore di lavoro, mi congela. Usciamo quindi nel piazzale della Questura e la mia amica scoppia in lacrime: l’abbraccio cercando di tranquillizzarla, anche perché mi rendo conto che come tutti i colleghi in ospedale  ha trattenuto le emozioni e soprattutto le lacrime. Continua  a ripetermi con voce disperata: “Hai visto? Non è possibile, non ci credo” chiedendomi in continuazione il perché, scusandosi per quello sfogo che non ce la faceva più a trattenere. Cerco piano piano di tranquillizzarla,  spiegandole che le cose purtroppo succedono anche a noi come agli altri ed è inutile massacrarsi con i “perché” mentre è assolutamente normale provare certe sensazioni ed avere reazioni come le sue, che sono reazioni normalissime di fronte ad eventi anormali, “assurdi”. Dopo averla tranquillizzata, decido comunque di seguirla con la mia macchina e accompagnarla a casa, in considerazione del suo stato d’animo e della non poca distanza da percorrere.
Tornato a casa mia mi metto a letto, ma non riesco a prendere sonno perché penso all’accaduto, a quello che ho visto e percepito, consapevole che non sarà  semplice fare il “pari”. Non mi nascondo di avere paura al pensiero di dover affrontare i colleghi feriti, perché,  ad un poliziotto che non sa ancora se ha perso per sempre in parte o in tutto l’uso delle mani, della vista o dell’udito, cosa gli dici?
La mattina seguente decido comunque di contattare gli Psicologi della Polizia a Roma, ma vengo anticipato dal loro direttore, il quale avendo avuto notizia dell’accaduto mi telefona per informarsi della situazione. Così gli riferisco quello che ho avuto modo di  vedere e capire, mettendolo al corrente dell’effettiva gravità di quanto accaduto e che sto per andare nuovamente in ospedale per stare vicino ai feriti. Conveniamo di aggiornarci a breve per valutare lo sviluppo della situazione e le necessità che si andranno a configurare.
Mi reco nuovamente in ospedale e fortunatamente incontro nei corridoi del reparto il nostro medico della Polizia, persona di grande umanità e professionalità, che sapendo che ho appena terminato il corso “pari”, appena mi vede dice: “Sono contento che sei qua, dobbiamo cercare di star loro vicino il più possibile, perché oltre alla  consapevolezza della gravità delle ferite riportate, ho paura che si stanno auto-colpevolizzando  per l’accaduto”. Così, mi faccio coraggio, ed insieme a lui vado a trovare per primo il collega ferito al volto ed agli occhi. Mi accorgo che non può vederci a causa delle bende che gli coprono gli occhi, così entro nella stanza, lo saluto chiamandolo per nome e gli domando come va. Dopo essermi assicurato che mi ha riconosciuto e senza essere troppo invadente,  inizio a parlare con lui in generale di cosa gli hanno detto i medici e di quello che è successo. Ma è solo dopo avergli raccontato quello che mi è accaduto durante il mio di incidente critico, che riusciamo a condividere veramente gli stati d’animo e le paure che egli ha provato in quel momento terribile.
Ci sono gli altri due colleghi feriti, e non nego di essere preoccupato entrando nella stanza del mio amico gravemente colpito alle mani: infatti so che i medici hanno dovuto amputare una gran parte delle dita della destra. Conoscendo bene il suo carattere, l’attaccamento e l’attenzione che ha per il lavoro, ho paura di trovarmi davanti ad un muro di cemento armato.  Invece anche lui si dimostra contento di vedermi e, piano piano, riesce a raccontarmi quello che gli è accaduto e come comincia ad immaginare la nuova realtà che dovrà affrontare. In ospedale ho ancora la possibilità di incontrare e parlare nuovamente con i colleghi in visita ai feriti, molti dei quali hanno assistito ed interagito materialmente con l’accaduto. Allora cerco di spiegare che sono lì anche come collega “pari”. Realizzo che vi sono molti di loro che non hanno dormito e che non riescono ancora a farlo. Serpeggiano stati d’animo contrastanti:  c’è chi  non riesce ad accettare l’accaduto, chi è fortemente preoccupato delle condizioni dei feriti e del loro futuro, chi si rimprovera di qualcosa in più che avrebbe potuto fare. Così provo a raccontare le sensazioni e le  paure provate durante il mio personale incidente critico, toccando con mano che effettivamente condividere le proprie esperienze vissute spinge gli altri a rivelare le loro emozioni. Così, quando  tre giorni dopo l’evento arrivano da Roma gli psicologi Ugo e Patrizia,  da me conosciuti durante la frequenza del corso di operatore con funzione di Pari e con i quali, subito dopo l’accaduto mi sono costantemente sentito al telefono,  mi rendo conto che tutto quello che ho fatto fino a quel momento, con grande sforzo mentale e fisico, è stato fondamentale, perché adesso i feriti hanno accettato la nostra visita senza problemi ed ognuno parla di ciò che sta provando. La cosa che mi colpisce di più è l’assoluta spontaneità con cui Ugo, mentre il collega ferito alle mani, durante i saluti gli presenta il “moncone” della mano destra ma poi fa per ritirarlo subito,  gli dice semplicemente: “Diamoci ‘sta mano” spezzando quel difficile attimo di tensione che si è generato.
Dopo l’incontro con i feriti in ospedale, nella giornata successiva rimaniamo in Questura a disposizione di quei colleghi che, informati della possibilità, decidano spontaneamente di incontrarci per parlare in gruppo dell’evento. Rimango colpito dal fatto che  si presentano all’incontro in molti, tanto da dover organizzare un gruppo la mattina ed uno il pomeriggio. E’ difficile descrivere gli stati d’animo e le emozioni che si sprigionano dal racconto dell’evento in gruppo, perché si raggiunge una realtà  “fotografica” inimmaginabile a priori: quel botto tremendo esploso fra la faccia e le mani di tre colleghi ha fatto veramente sentire loro la paura e la vulnerabilità che il “mestiere” ci porta a negare. Un collega fortemente coinvolto e provato dall’evento si alza dalla seggiola e decide di abbandonare il gruppo uscendo dalla stanza dove siamo seduti in cerchio, prontamente seguito da uno degli psicologi.
L’incontro è appena iniziato e mentre il collega è fuori con lo psicologo, un altro poliziotto, giunto in ritardo, chiede di poter partecipare. Viene invitato a sedersi in cerchio insieme a noi e, senza saperlo, occupa il posto del collega uscito. In un attimo realizzo che se quest’ultimo rientrando non trovasse la sedia dove sedersi in gruppo con noi, si potrebbero creare sensazioni di esclusione e di disinteresse da parte nostra. Quindi con molta tranquillità mi alzo e prendo un’altra seggiola posizionandola vicino a quella adesso occupata dal nuovo entrato. Poco dopo lo psicologo e il collega uscito rientrano sedendosi nuovamente in mezzo a noi senza accorgersi di nulla, se non del fatto che si è aggiunta una persona.
Al termine del secondo gruppo, uno dei partecipanti ci dice di non riuscire più a dormire dal giorno dell’evento, rivivendone in continuazione le fasi più dure: infatti è stato uno dei primi a soccorrere i feriti. Così  Patrizia, con il consenso dell’interessato, decide di praticargli una procedura speciale denominata E.M.D.R.,   ed è incredibile vedere come riesca a fargli rivivere, passo passo, l’incidente critico, come se ne scorressero alla moviola i fotogrammi insieme all’audio. L’impatto è tale che a me, che collaboro per la realizzazione tecnica dell’intervento, sembra di vivere in prima persona le varie fasi dell’incidente: avviene così, sotto i miei occhi, la normalizzazione dello stato emotivo del collega.
Per concludere gli incontri con un momento di convivialità, grazie all’aiuto dell’ufficio sanitario della Questura, faccio trovare ai partecipanti bibite e pasticcini in modo da poter condividere un momento di serenità. Infatti continuiamo a chiacchierare del più e del meno, per la prima volta senza tutta quella tensione percepita nelle stesse persone nei giorni precedenti, potendo effettivamente riscontrare  che la possibilità di  esternare e confrontare i propri pensieri, ricordi ed emozioni con altri ha permesso di comprenderli, accettarli  e normalizzarli.
Al termine della giornata è indispensabile per me parlare con Ugo e Patrizia così da poter tirare fuori le mie di emozioni, anche perché fino a quel momento mi sono caricato di tutte le informazioni e gli stati d’animo degli altri, senza poter invece  scaricare i miei.
A distanza di alcune settimane dall’incidente, e precisamente dopo la dimissione dei colleghi, gli psicologi Ugo e Patrizia tornano principalmente per incontrare con me in gruppo i tre feriti, perché è importante poter parlare con loro fuori dalle mura dell’ospedale ed aiutarli a attivare le strategie necessarie a  far fronte ai vari tipi di conseguenze che l’incidente ha provocato e comporterà nel futuro.
Oggi posso dire che non è stata cosa semplice fare quello che ho fatto: le mie emozioni sono state messe a dura prova, anche in considerazione del rapporto di amicizia che avevo con alcune delle persone coinvolte. Nei mesi successivi, ho sempre cercato di incontrare i colleghi senza essere invadente, organizzando insieme qualche cena, in modo da contribuire  a che le cose potessero tornare piano piano alla normalità, ed a distanza di alcuni anni posso affermare che questo è effettivamente accaduto”.
Luigi Lucchetti, presidente on. di AIGESFOS-APS
Felix B. Lecce, presidente di  AIGESFOS-APS

Lo stress traumatico nelle parole di chi lo ha vissuto sulla propria pelle

Più della illustrazione concettuale che abbiamo sopra presentato, riteniamo molto più pregnante e rappresentativo dei vissuti degli operatori di polizia coinvolti in eventi critici di servizio riportare questo straordinario resoconto di un poliziotto che ha voluto mettere a disposizione dei colleghi la sua terribile esperienza di servizio, che ha poi fatto da presupposto esperenziale alla sua  attuale “mission” di Pari della Polizia di Stato. Ovviamente, per la riservatezza che è obbligo in questi casi, abbiamo eliminato qualunque riferimento contestuale a fatti, luoghi e persone.

«Ore 18.25  del 5 febbraio 2000. Io e Daniele siamo di pattuglia nella zona delle biglietterie della stazione ferroviaria centrale quando, ad un certo punto, decidiamo di svolgere alcuni controlli su persone sospette che notiamo nella piazza antistante.
Vi è un gruppo di tre persone che bivacca davanti ad un chiosco, ci avviciniamo e chiediamo loro i documenti. Nel frattempo giunge un altro individuo ed anche lui viene sottoposto al controllo. Mentre Daniele si occupa di tre di loro, due uomini e una donna, osservando i loro atteggiamenti senza farli muovere più di tanto, io mi concentro su colui che immagino essere il più “interessante”: l’ultimo arrivato. Si chiama C.A., e dopo aver accertato tramite la Sala Operativa che ha un passato da pluriomicida (sette omicidi), che a suo carico ha numerosissimi altri precedenti penali e che gode del regime di semilibertà, approfondisco il controllo sottoponendolo alla perquisizione personale sul posto.
Il C.A. si mostra molto nervoso ed insofferente, manifestando più volte l’intenzione di girarsi dando le spalle a noi operatori di polizia. Ciò non gli viene permesso spiegandogli con modi garbati, ma fermi, che poiché sottoposto ad un controllo di polizia deve rispettare le regole che gli vengono imposte.
Dopo aver controllato nelle varie tasche dei pantaloni e del giubbotto, sotto la maglia, e nei calzini che indossa se vi celi qualcosa di illecito, gli domando perché, nonostante il freddo, continui a sudare. Egli risponde che non ha nulla da nasconderci e quindi, al mio invito, inizia ad aprire le tasche del marsupio che porta al seguito.
Nella prima tasca non vi è niente, nella seconda un pacchetto di gomme da masticare aperto, la terza tasca non vuole aprirla mostrando un attimo di esitazione. Torno a ripetergli la richiesta mentre nel frattempo gli altri tre individui osservano la scena senza muoversi come se già conoscessero il contenuto del marsupio ed un loro gesto potrebbe compromettere “qualcosa” (oggi direi che sembravano i clienti di una banca che viene assalita dai rapinatori).
A questo punto il C. si decide ad aprire la tasca, fa scorrere la zip e vi infila la mano dentro: improvvisamente la estrae dal marsupio impugnando una pistola e contemporaneamente urla: “ho questa”, puntandomela in faccia.
Io che pensavo a tutto, tranne al fatto che quel individuo potesse essere armato di pistola devo realizzare in un attimo, cancellando dalla mia mente tutte le ipotesi fatte circa il contenuto del marsupio e in che modo quindi procedere, come trovare una soluzione rapida per salvare la “pelle”. Avevo infatti presunto, come spesso succede, che lì dentro vi fosse della droga, un coltello, dei gioielli in similoro ma comunque nulla di così pericoloso.
Vistomi alle strette decido di afferrare la mano armata dell’uomo cercando di non farmi colpire al viso; nel frattempo egli, estremamente robusto, alto circa un 1 metro e novantacinque, molto forte fisicamente, riesce con l’altra mano a “scarrellare” per mettere un colpo in canna, e nel frattempo noto che un altro colpo salta fuori dalla pistola finendo a terra.

Preso dallo spavento e consapevole dell’imminente pericolo di vita cerco di reagire a tutti i costi, utilizzando una forza che non avevo mai pensato di possedere: riesco così ad abbassare la mano armata dell’uomo dopo di che odo un’esplosione e mi rendo conto di essere stato colpito all’emitorace sinistro.
A causa del forte dolore lascio la mano dell’aggressore indietreggiando di un passo: Daniele che mi vede in difficoltà si china in avanti, preparandosi ad un balzo sul corpo del malvivente. In questo frangente gli altri tre individui raccolgono da terra i loro documenti e quelli del C., documenti che avevo lasciato cadere per prepararmi a reagire con le mani libere, per poi dileguarsi tra le vie cittadine.
Il C.A. notando Daniele posizionato a reagire in mio soccorso gli punta la pistola esplodendogli quasi a bruciapelo un colpo che lo raggiunge all’altezza del torace, ferendolo gravemente. Mentre Daniele cade a terra mi urla di essere stato colpito al cuore. Io mi faccio forza e affronto di nuovo il malvivente afferrandolo al collo con l’intento di atterrarlo. Tale operazione però non va a buon fine in quanto il criminale con l’altra mano mi agguanta per il giubbotto della divisa e mi trascina a terra sopra di lui. Cadendo urto con violenza il viso sul pavimento di porfido della piazza provocandomi delle ferite alla testa, al naso ed alla bocca, con la conseguente rottura degli occhiali. A causa del colpo mi disoriento al punto di non capire più cosa mi sta accadendo; quindi il C.A. ha la possibilità di rotolarsi su di me, appoggiarmi la canna della pistola al petto ed esplodere un altro colpo di pistola che mi trapassa per poi fuoriuscire dietro la schiena.
Mi rendo conto del fatto che la vita mi sta abbandonando, ma non voglio accettare una fine simile: non si può smontare dal servizio dentro una bara! Così ormai allo stremo delle forze grido al criminale di non ammazzarmi urlandogli contro di farla finita ad accanirsi contro di noi. Egli invece si mette in ginocchio sopra di me, prende la mira e mentre io cerco di muovermi il più possibile per non farmi colpire nuovamente esplode a mo’ di esecuzione mafiosa un altro colpo che mi perfora nuovamente l’emitorace sinistro.
Il tempo sembra essersi fermato al punto che ho l’impressione di vivere quella terribile esperienza al rallentatore e quasi da spettatore. Comincio a vedere delle immagini dentro di me raffiguranti le cose belle della mia vita, le persone a me care, le situazioni di gioia che avevo condiviso con chi mi aveva dato un pizzico di felicità, i paesaggi a me cari, ripetendomi fra me e me: “Perché tutto questo, che ho fatto di male, la mia vita non può finire così”.
Ad un tratto ritorno nella realtà e noto le scarpe del criminale, marroni tipo Timberland con il carro-armato: è in piedi vicino alla mia testa, si è girato verso la zona opposta della piazza e con passo veloce si sta allontanano. Trascorsi alcuni secondi esplode verso di noi un altro colpo e ricomincia la fuga per poi barricarsi in un hotel con tre ostaggi…
Dopo che il delinquente si è allontanato odo degli attimi di estremo silenzio che mi sono utili per rendermi conto dell’evento che abbiamo appena finito di vivere, dopo di che la mia attenzione va subito verso Daniele che giace a terra a circa due metri da me. Tra me e lui vi è la radio portatile che prima portavo appesa alla spalla e che nella colluttazione mi si è sganciata finendo a terra. Cerco di raggiungere Daniele però non riesco ad alzarmi: quindi con la forza delle braccia mi trascino verso di lui raccogliendo intanto la ricetrasmittente. Dopo averlo raggiunto noto che è cosciente ma ferito gravemente al petto: quindi con la forza della disperazione riesco a mettermi in piedi e con la radio chiamo i soccorsi. Appena fatto ciò mi inginocchio vicino a lui cercando di tranquillizzarlo visto che è molto agitato perché non riesce a respirare.
Poco dopo giungono i colleghi della nostra squadra che vedendoci ridotti in quelle condizioni hanno un attimo di smarrimento: non sanno più cosa fare, due della loro “famiglia” sono stati feriti gravemente, è la prima volta che tutti noi ci troviamo a vivere una situazione del genere, da “protagonisti”, la prima volta che ci troviamo irrimediabilmente sconfitti. Fino ad ora siamo riusciti a fronteggiare qualsiasi tipo di intervento (rissa, rapina, aggressione, scippo ed altro) uscendone vincitori al fine di riportare l’ordine in città, dando ognuno di noi il massimo e lavorando in gruppo. La nostra forza è sempre consistita nel lavoro di gruppo, collaborando con il collega-fratello, coordinandoci a vicenda senza sbagliare di una virgola, perché i nostri interventi di routine consistevano in altro, non era mai accaduta una simile disgrazia… il poliziotto soccorritore che si trova in difficoltà rimanendo ferito e necessita lui di essere soccorso.
Sono stati colpiti due della squadra, tutti abbiamo toccato con mano il vero pericolo di questo mestiere che di solito capita di leggere sui giornali, vederlo in televisione nei film, pensando che non può mai succedere a uno di noi, perché ci sentiamo quasi al di sopra di certi pericoli, in grado di fronteggiare qualsiasi tipo di problema.
Il momento che mi è rimasto più impresso è stato quando il nostro capo turno Enrico è giunto con gli altri colleghi in piazza e, vedendoci entrambi a terra feriti, mi si è avvicinato, mi ha stretto la mano e mi ha bagnato la divisa con le lacrime. Non è riuscito a parlare ma con gli occhi e il cuore mi ha detto cose che con le parole non sarebbe mai riuscito a trasmettermi nessuno.
In questi attimi di concitazione osservo tutti i miei colleghi presenti: alcuni hanno l’istinto di correre in direzione del fuggitivo per vendicarci, altri cercano di far allontanare la folla per facilitare l’arrivo delle autoambulanze, altri con sguardo smarrito cercano qualcosa da fare per rendersi utili, ma continuano a giraci intorno come sotto ipnosi, quasi imbambolati.
Dopo essere giunti in ospedale tanti colleghi del nostro ufficio sono rimasti con noi fino a tardi per confortarci, aiutarci a superare il trauma subito temendo che se ci avessero lasciati soli avremmo sofferto ulteriormente: quindi ognuno si è reso utile anche con la sola presenza fisica, sono stati con noi, hanno condiviso il nostro dolore, probabilmente anch’essi desiderosi di rimanere in gruppo perché isolandosi avrebbero sofferto molto di più.
Di questo spiacevole evento ho tatuati nella mia mente alcuni inconfondibili ricordi: l’odore della polvere da sparo; il rosso della fiammata dell’esplosione dei colpi di pistola; il rantolo che emetteva il C. mentre tentava di eliminarmi; l’odore della sua pelle; i suoi occhi senza alcuna espressione: sembrava quasi che fosse in trance ipnotica; i particolari del suo marsupio; le guanciole della pistola che impugnava; il rumore delle sue scarpe che strusciavano sul pavimento; il sudicio che albergava sotto le sue unghia; il cappellino di lana che calzava sulla testa; i suoi occhiali da vista stile anni ’70.
Oltre ciò non dimenticherò mai la scena presentatasi ai miei occhi qualche istante dopo quella tragedia: eravamo entrambi feriti senza la possibilità di reagire a qualsiasi tentativo di sciacallaggio, non vi era nessun poliziotto nelle vicinanze, ma solo avanzi di galera, barboni, tossici e balordi di ogni genere. Avevamo bisogno di aiuto, ci serviva la mano di qualcuno che non volesse approfittare della nostra fragilità e proprio in quel frangente notavamo avvicinarsi loro, i disadattati di ogni genere che avevamo arrestato e denunciato quando avevano commesso dei reati, ed aiutato quando erano affamati, infreddoliti o desiderosi di sfogare i loro problemi personali con una figura amica.
In piazza non vi erano i soliti passanti curiosi che a costo di “godersi lo spettacolo” diventano un intralcio per gli addetti ai lavori fregandosene se un operatore di polizia cerca di allontanarli, perché non si è al cinema e non è bello divertirsi con i problemi altrui. Quella gente lì non c’era, era fuggita perché udire l’esplosione dei colpi d’arma da fuoco aveva fatto loro dimenticare di essere schiavi della curiosità.
Eravamo soli e vedevamo quei ragazzi disadattati che si avvicinavano non per approfittare della nostra fragilità ma per darci soccorso. Un travestito si è seduto a terra, ha preso la testa di Daniele e se l’è appoggiata sulle gambe, carezzandogli i capelli cercava di diminuirgli il dolore che stava sentendo; un marocchino già da noi precedentemente arrestato per borseggio  si è inginocchiato su di lui, gli ha slacciato il cinturone e me lo ha affidato, dopo di che è tornato da Daniele e sporcandosi con il sangue di lui poliziotto ha cercato di tamponargli la ferita al petto con la mano; una ragazza tossicodipendente piangendo cercava di attirare l’attenzione degli altri disadattati che stavano arrivando alla spicciolata con frasi del tipo: “aiutateci, correte, hanno sparato ad occhialino e suo fratello”. Udite queste frasi i ragazzi ci hanno raggiunto, si sono messi in cerchio intorno a noi e si sono spostati solo quando sono arrivate le pattuglie della nostra squadra perché temevano per la nostra incolumità.

Mentre ero nella mia camera d’ospedale sono stato informato dai colleghi che ci assistevano h24 che un gruppo di quindici, venti “tossici” era giunto al reparto di chirurgia con l’intento di farci visita, ma ciò non gli era stato permesso per ovvi motivi.
L’esperienza vissuta con Daniele mi ha fatto rendere conto del fatto che il nostro lavoro, quando subentra la routine, ci porta a sottovalutare il pericolo, che a volte ci convinciamo quasi di essere onnipotenti, che nulla ci può nuocere al punto di toglierci la vita, ma che basta un attimo per vedere in frantumi ciò che si è costruito con enorme sacrificio.
Passato questo triste momento mi sono accorto sempre di più di essere attaccato alla vita, di sentire il profumo dei fiori a cui fino ad allora non avevo dato importanza, di riuscire a godere ed essere appagato delle piccole soddisfazioni che la vita giornalmente ci propone, del vero significato della parola amore, della voglia di costruire e, soprattutto, di essere rinato con una marcia in più».

Luigi Lucchetti, presidente on. di AIGESFOS-APS
Felix B. Lecce, presidente di AIGESFOS-APS

Lo stress traumatico nelle forze dell’ordine

Lo stress traumatico rappresenta un rischio specifico per gli operatori di polizia, dato il loro stretto contatto con eventi che hanno a che fare con la morte o il rischio di morte da causa violenta, per loro stessi o per altri, rispetto alla generalità degli altri lavoratori.
Questa particolare forma di stress è innescata da eventi cosiddetti “critici”, in quanto in grado di sconvolgere le capacità di adattamento dell’individuo che pertanto sperimenta un profondo sentimento di vulnerabilità ed una devastante sensazione di perdita di controllo sulla realtà.
Alcuni esempi:
– disastri naturali o provocati dall’uomo
– gravi incidenti automobilistici
– aggressioni personali violente
– suicidio di terzi significativi
– essere presi in ostaggio o rapiti
– diagnosi di malattie minacciose per la vita a carico del soggetto o stretti familiari

Caratteristiche degli eventi critici:
– sono improvvisi ed inaspettati
– travolgono la nostra sensazione di controllo della realtà
– comportano la percezione di una minaccia potenzialmente mortale
– possono causare perdite fisiche e/o emotive

– violano i presupposti su come pensiamo funzioni il mondo:
“Questa cosa non doveva accadere”
“Le cose brutte non capitano a me”
“Il mondo è prevedibile, giusto e controllabile, ed io ne ho il controllo”
“Alle brave persone non capitano brutte cose”
“Non doveva capitarmi ancora questo, dopo tutto quello che ho già passato”

Eventi critici  professionali (o di servizio)
Vengono definiti così quelli a cui sono esposti più tipicamente gli appartenenti a particolari categorie lavorative a ragione della loro specifica attività.

Per coloro che svolgono  il loro servizio nell’ambito dei comparti sicurezza/giustizia si possono delineare gli scenari più diversi ed imprevedibili, di cui i successivi rappresentano solo alcune esemplificazioni

a) esempi di eventi vissuti direttamente:
– conflitti a fuoco in cui uno o più operatori, o altri soggetti(criminali o terzi) siano rimasti feriti o uccisi
– aggressione violenta subita in ordine pubblico,  nel corso di un intervento per una lite, di una rivolta, di un tentativo di evasione
– attentati in qualità di vittima generica o specifica per l’attività istituzionale svolta
– essere presi in ostaggio durante una rapina, un’azione terroristica, una rivolta, un tentativo di evasione
– gravi incidenti in quanto equipaggio di un mezzo di servizio
– ricevere gravissime minacce personali a motivo del proprio ruolo di tutore della legge
– incarceramento conseguente a fatti di servizio

b) esempi di eventi vissuti a causa di un intervento di servizio:
– in caso di gravi incidenti stradali
– in qualità di soccorritori in occasione di disastri naturali o provocati dall’uomo
– in caso di suicidio o tentato suicidio messo in atto da un collega o da criminali in custodia
– in caso di gravi incidenti o lesioni subite da colleghi per cui si sia prestata assistenza diretta
– in caso d’intervento su scenari in cui uno o più operatori o altri soggetti (criminali o terzi) siano rimasti feriti o uccisi

c)esempi di eventi vissuti per confronto emotivo:
– venire a conoscenza della morte violenta per servizio o per gesto suicidario di colleghi a cui si era legati da rapporti di amicizia
– venire a conoscenza di gravi minacce rivolte a membri della propria famiglia o di aggressioni personali violente subite dagli stessi per l’attività istituzionale svolta dal congiunto
– venire a conoscenza di gravi abusi subiti da minori nel corso di indagini che includono il contatto con le vittime
– comunicare la morte di un collega avvenuta in servizio alle persone care.

Dopo aver sperimentato uno degli eventi sopradescritti, l’operatore di polizia può manifestare scarse reazioni o una sintomatologia più vivace, riconducibile alle varie manifestazioni del distress già trattate ed a cui si rimanda – in particolare, irritabilità e disturbi del sonno – oltre a flashback, pensieri intrusivi, ottundimento emotivo, aumento della sensazione di pericolo, “marchio di caino”(credere erroneamente che tutti sanno ciò che è avvenuto e che l’operatore vive con senso di colpa o vergogna). Queste possono essere considerato reazioni normali ad eventi anormali, e generalmente tendono spontaneamente e progressivamente a diminuire, fino a scomparire nell’arco di alcune settimane dall’episodio vissuto.

La condivisione emotiva dell’evento con famigliari, amici e colleghi, insieme ad una idonea igiene di vita e di lavoro nel periodo successivo all’esperienza traumatica, sono fondamentali elementi in grado di accelerare la “guarigione” ed il ripristino  di un buon equilibrio personale e sociale.

Alcuni invece, ed in particolare quelli che evitano di consapevolizzare ed affrontare le loro reazioni emotive, possono trovarsi a rivivere il loro trauma con intensità sempre maggiore, fino a credere che niente si risolva durante le prime settimane dopo l’incidente, ma che anzi le cose si aggravino sempre di più.

Un operatore di polizia che ha vissuto un evento critico dovrebbe cercare e ricevere un aiuto professionale se le reazioni seguenti perdurano per più di un mese ad un livello che peggiora significativamente il proprio grado di funzionamento precedente l’evento:
–  immagini intrusive: ricordi e pensieri disturbanti, incubi, flashback;
–  disturbi marcati in caso di esposizione ad eventi che somigliano o simboleggiano l’incidente vissuto (es. per un soggetto vittima di aggressione di gruppo vedere persone assembrate);
–  evitamento di pensieri ed emozioni relative all’evento, o di attività o situazioni che sollecitano ricordi del trauma (es. non riuscire ad andare più alla Posta o in Banca se l’evento è avvenuto in uno di quei luoghi);
–  ottundimento o gamma ristretta di risposte emotive (che vengono vissuti come un’amputazione della propria personalità e identità);
–  reazioni eccessive di stress;
–  ipervigilanza(eccessiva attivazione attenzionale a segnali di potenziale pericolo);
–  reazioni scarse o molto intense, propensione al rischio (in ambito lavorativo, sportivo, sessuale, ecc.);
–  aumento dell’irritabilità, della rabbia o dell’ira (“nessuno si sforza di capirmi, tutti si fanno i fatti loro”, “come fa a vivere così stupidamente questa massa di imbecilli?”);
–  ossessioni relative all’incidente, facile innesco di pensieri sull’evento, il soggetto sembra bloccato nel passato ed ha difficoltà a considerare il futuro (come se il tempo si fosse fermato);
–  l’evento attuale innesca sensazioni spiacevoli associate ad eventi passati(il prestare soccorso ad un bambino traumatizzato “aggancia” il ricordo della morte per incidente stradale di un compagno di scuola);
–  l’impatto emotivo accumulato di vecchie e nuove situazioni, appare così sconvolgente che la capacità di gestire efficacemente qualsiasi evento sembra assente o gravemente menomata;
–  senso di colpa, dubbi e convinzioni negative su sé stessi, sensazioni di inadeguatezza, Rimuginamento su errori percepiti;
–  senso crescente di isolamento: “nessuno capisce quello che provo… mi sento perduto, abbandonato e diverso dagli altri”;
–  sensazioni intense o continue di depressione, dolore, perdita di controllo;
–  confusione mentale: facilità a distrarsi, difficoltà di concentrazione o di prendere decisioni, scarsa capacità di giudizio;
–  aumento della diffidenza e della sospettosità nei rapporti con gli altri;
– problemi di relazioni interpersonali, allontanamento dagli altri, conflitti coniugali e familiari, aumento delle difficoltà nei rapporti con colleghi/superiori/collaboratori/utenti;

o se manifesta:
– marcata e progressiva riduzione del rendimento sul lavoro, cronico aumento dell’assenteismo, burn-out (sentirsi bruciati, fusi, esauriti ed ostili nei confronti dei cittadini), diminuzione della produttività e della qualità del lavoro;
– comportamento autodistruttivo: abuso di sostanze, fumo, caffè, alcool; incidenti, scarsa capacità di giudizio e decisioni inadeguate;
– pensieri suicidi, che possono presentarsi sulla base di sentimenti di depressione, colpa, disperazione e rabbia nei confronti di sé stessi (ricordarsi che in casi eccezionali vi può essere il passaggio a gesti autolesivi).

Un poliziotto potrebbe evidenziare poche o lievi reazioni iniziali all’evento, ma esse vengono innescate alcuni mesi più tardi, quando per esempio rientra nell’ambiente lavorativo dopo un periodo di malattia per le sequele fisiche riportate.

In questi casi si rende necessario un aiuto professionale da parte di psicologi e/o psichiatri esperti nel campo dello stress traumatico, eventualmente coadiuvati da “Pari”: colleghi appositamente formati che hanno, nel passato vissuto e superato eventi professionali simili, i quali con la loro presenza vissuta come autentica offerta di aiuto, riescono a superare la diffidenza che gli operatori di polizia nutrono per i professionisti della salute mentale.

Questa figura di supporto, già da tempo sperimentata in molti paesi occidentali, da alcuni anni è stata introdotta nella Polizia di Stato ed impiegata con successo in eventi di servizio particolarmente gravi. Alla luce di ciò, si deve al riguardo auspicare un maggiore impegno da parte dell’Amministrazione affinché questa figura sia più conosciuta e sistematicamente impiegata.

Di fronte ad un evento traumatico di servizio, gli operatori di polizia devono essere seguiti nel processo di normalizzazione dell’esperienza vissuta, senza assumere nei loro confronti atteggiamenti “fiscali”, ma di supporto e protezione, che in alcuni casi può anche configurare l’allontanamento temporaneo dal servizio o l’impiego in settori ed attività diversi dai precedenti.

I colleghi, con la loro vicinanza rispettosa e solidarietà autentica, possono rappresentare una notevole risorsa, anche attraverso l’attenzione a cogliere indicatori di evoluzioni sfavorevoli che rendono necessario un intervento professionale specifico.

Stress lavoro correlato nelle FF.OO

Gli scenari in cui  attualmente si declina qualsiasi attività lavorativa, pubblica e privata, sono caratterizzati da una congiuntura economica mondiale sfavorevole, dall’utilizzo massiccio di tecnologie specie di natura informatica, dall’aumento della competizione in ambito interno ed internazionale, dall’incertezza e dall’estremo dinamismo dei mercati, dalle fluttuazioni  demografiche  connesse all’immigrazione legale e clandestina nei paesi occidentali di ampie fasce di popolazione provenienti dai paesi più poveri.
Tutto ciò si traduce nella concreta realtà lavorativa in subentranti innovazioni nella progettazione, nell’organizzazione e gestione del lavoro,  aggravio nel carico e nel ritmo del lavoro, diminuzione fino a perdita di molte tutele sociali, elevate pressioni emotive, precarietà del lavoro e maggiori difficoltà a conciliare le esigenze lavorative con quelle della vita privata.

Per quanto attiene la realtà delle Forze di Polizia e del Soccorso, si è assistito in questi anni ad una progressiva e massiccia riduzione delle risorse economiche messe a loro disposizione, contrazione degli organici con diminuzione del turn-over ed innalzamento dell’età media dei dipendenti, a fronte di una maggiore richiesta di sicurezza e vicinanza di questi operatori da parte della società.  Inoltre vi è stato un incremento del fenomeno immigratorio legale e clandestino, l’aumento delle tensioni sociali anche come effetto della già citata crisi economica che ha investito il mondo occidentale, l’implementazione di strategie sempre più sofisticate da parte della criminalità comune ed organizzata, le minori risorse economiche a disposizione delle aziende per la sicurezza e, per chiudere questo elenco sicuramente in difetto, l’introduzione di molte nuove norme nei vari ambiti giuridici a cui gli operatori devono necessariamente attenersi.
Il D.lgs 81/2008, aggiornato dal D.lgs 106/2009, all’art. 28 ha posto in primo piano la problematica del rischio stress nel mondo del lavoro e delle organizzazioni, introducendo nell’ambito dell’obbligo generale per il datore di lavoro di valutare i  rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori, anche quello di effettuare tale procedura per quelli collegati allo stress lavoro-correlato. Nel fare ciò il decreto ha richiamato espressamente l’Accordo Quadro Europeo del 8/10/2004 che, recepito in Italia dall’Accordo Interconfederale del 9/6/2008, con l’attuale citata normativa viene di fatto introdotto nella nostra legislazione nazionale.
L’obiettivo generale dell’Accordo è quello di offrire ai datori di lavoro ed ai lavoratori (ed ovviamente ai loro rappresentanti) un quadro di riferimento normativo (ma anche di porsi come stimolo culturale) per individuare e prevenire o – in ultima ipotesi, se già presenti – gestire problemi di stress lavoro-correlato, accrescendo la consapevolezza e la comprensione di tutti i soggetti coinvolti, dal datore di lavoro agli occupati, della specifica tematica, attivando la loro attenzione sui segnali potenzialmente indicatori di tale condizione, senza correre il rischio di attribuire la responsabilità dello stress a singoli individui che ne evidenziassero le manifestazioni.
Lo stress viene definito non come una malattia in sé, ma come una condizione di tensione che, se prolungata, può ridurre l’efficienza dell’individuo sul lavoro e determinarne un cattivo stato di salute, oltre che divenire un rischio per la sicurezza, poiché riduce la percezione del rischio in generale ed altera i processi comportamentali necessari per la tutela della propria ed altri incolumità.
Dati europei indicano come si debbano valutare in svariate decine di milioni le giornate lavorative annualmente  perse a causa degli effetti dello stress lavoro-correlato, significando così come sia interesse di tutti: lavoratori, datori di lavoro, stato e società nel suo complesso, affrontare e quanto meno ridurre significativamente l’impatto di tale fenomeno.  Egualmente, nell’ambito delle Forze di Polizia e del Soccorso, si conferma come gli effetti disfunzionali, diretti ed indiretti, dello stress che origina dal lavoro rappresentino la principale causa di assenza dal servizio.
Anche per quanto riguarda lo stress lavoro-correlato, i  lavoratori non sono solo destinatari passivi di norme che hanno l’obiettivo di tutelare la loro salute e sicurezza, ma coinvolti attivamente nel processo di attuazione delle misure per prevenirlo, ridurlo e, quando possibile, eliminarlo.
Lo stress lavoro-correlato: aspetti normativi
Risulta utile definire lo stress da lavoro, o come recita l’Accordo Quadro Europeo lo stress lavoro-correlato, secondo le linee tracciate dal citato documento in modo da focalizzare la problematica anche sotto il profilo della normativa sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro:
A)     Lo stress viene definito in senso generale non come una malattia in sé, ma come una condizione di tensione, che se prolungata, può ridurre l’efficienza sul lavoro e determinare un cattivo stato di salute ed essere accompagnato da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica e sociale;
B)      Lo stress è la conseguenza di un divario tra richieste ed aspettative e capacità dell’individuo di corrispondervi, capacità che non sono identiche nei vari soggetti a parità di stimoli, né nello stesso soggetto in momenti diversi della propria vita di fronte ad identiche situazioni;
C)      Lo stress può avere origini sia nell’ambito lavorativo che extra-lavorativo, e le sue manifestazioni sono identiche qualunque sia il contesto di genesi: pertanto non esiste alcun indicatore assolutamente specifico di stress lavoro-correlato;
D)     Anche lo stress indotto da condizioni extra-lavorative può condurre a cambiamenti nel comportamento lavorativo, e ad una ridotta efficienza prestazionale;
E)      Un alto tasso di assenteismo, di rotazione del personale, frequenti conflitti interpersonali o lamentele da parte dei lavoratori sono alcuni degli indicatori che possono orientare per un problema di stress lavoro-correlato.
Lo stress lavoro-correlato si caratterizza per un insieme di reazioni fisiologiche, cognitive, emotive e comportamentali conseguenti alla percezione di aspetti avversi e nocivi del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro.
Presenta una connotazione soggettiva in quanto ogni lavoratore reagisce in maniera diversa agli stessi stimoli a cui sono esposti i propri colleghi, in rapporto alla sua struttura di personalità, all’esperienza di vita e di lavoro ed alla personale interpretazione delle situazioni problematiche.
Nell’approfondimento del fenomeno la ricerca scientifica ha posto l’attenzione su quattro elementi fondamentali:
Le richieste, intese come il livello di prestazione a cui il lavoratore è chiamato a corrispondere;
Il controllo, inteso come la possibilità di gestire il carico ed i ritmi di lavoro oltre che di ridurne la monotonia e la ripetitività ;
La ricompensa, intesa come forme di riconoscimento, gratificazione economica e non solo, conseguenti alle proprie prestazioni;
Il supporto: inteso come l’insieme delle risorse, soprattutto umane e relazionali, di cui l’individuo può disporre specialmente nelle situazioni e nei momenti problematici.
Quando questi quattro elementi risultano cronicamente in squilibrio tra di loro è molto probabile l’emergenza di problemi di stress lavoro-correlato.
L’individuazione di un eventuale problema di stress lavoro-correlato richiede una analisi di fattori oggettivi (gli stressori) come: la gestione dell’organizzazione e dei processi di lavoro, le condizioni in cui il lavoro viene svolto, la comunicazione e le informazioni a disposizione del lavoratore; e di fattori soggettivi, relativi alla personale modalità di affrontare le problematiche connesse al proprio ruolo ed impegno lavorativo.
Nonostante lo stress rappresenti uno dei principali effetti del disagio lavorativo, non se ne possono pertanto attribuire le cause esclusivamente alle disfunzionalità dell’organizzazione o, viceversa, alla risposta soggettiva del o dei lavoratori.  Esso si configura come il risultato di un processo in cui interagiscono sia gli stressori lavorativi che le caratteristiche dei lavoratori e le loro strategie di affrontamento (coping in lingua inglese) delle situazioni problematiche o comunque difficili da gestire.
Qualora si individui un problema di stress lavoro-correlato il datore di lavoro ha comunque l’obbligo di stabilire le misure per prevenirlo, eliminarlo o ridurlo, che possono essere di carattere collettivo, individuale o di entrambi i tipi.
Si deve segnalare che l’Accordo Quadro Europeo a cui fa riferimento la legislazione italiana non comprende la violenza, le molestie e lo stress post-traumatico significando che tali evenienze, pur se in capo alla responsabilità del datore di lavoro nei limiti e  secondo la normativa vigente di carattere penale e civile, non entrano a far parte del protocollo di valutazione standard dei rischi collegati al lavoro.
I fattori stressanti nelle Forze dell’Ordine e del Soccorso
La ricerca scientifica ha identificato e classificato i fattori stressanti in ambito lavorativo, ricomprendendoli in due grandi aree: il contesto e il contenuto del lavoro.
Nell’ambito del contesto lavorativo si distinguono i seguenti fattori:
– cultura e funzione organizzativa: riguarda la codificazione delle procedure di lavoro, la presenza di un definito organigramma aziendale, la qualità della comunicazione interna, la chiarezza degli obiettivi da raggiungere, ecc. ;
– ruolo nell’organizzazione: riguarda la chiarezza dei compiti e delle responsabilità di ciascuno, la presenza di conflitti o ambiguità di ruolo, la necessità di assommare più incarichi o di svolgere mansioni di livello superiore o inferiore al proprio ruolo, ecc.;
– sviluppo di carriera: riguarda le possibilità, le regole e le procedure relative alla crescita professionale, i livelli retributivi iniziali e successivi, la sicurezza del posto di lavoro, la considerazione sociale del lavoro, ecc. ;
– l’autonomia decisionale e il controllo: riguarda la partecipazione al processo decisionale, il grado di autonomia nello svolgimento del lavoro, la possibilità di ricevere una supervisione di supporto, la possibilità di conoscere l’evoluzione ed i risultati della propria attività, ecc.;
– rapporti interpersonali sul lavoro: riguarda le dinamiche di collaborazione e competizione, i conflitti interpersonali a livello orizzontale e verticale, e le modalità della loro gestione, ecc.;
– interfaccia casa-lavoro: riguarda le problematiche di conciliazione delle richieste lavorative con le esigenze famigliari, il travaso di stress nei due sensi tra l’ambito lavorativo ed extralavorativo, la facilità nel raggiungere il posto di lavoro, ecc. .
Nell’ambito del contenuto lavorativo vengono individuati i seguenti fattori:
– ambiente ed attrezzature di lavoro: riguarda i rischi di ordine fisico, chimico e biologico su cui si è concentrata l’attenzione della legge 626/94 relativi a: illuminazione, temperatura, correnti di aria, umidità, rumori, spazi a disposizione, condizioni igieniche, inquinanti, ecc.; i rischi per la incolumità fisica, la disponibilità ed idoneità di attrezzature e strumentazioni necessarie allo svolgimento(in sicurezza) del lavoro, ecc.;
– pianificazione e progettazione dei compiti: riguarda la certezza dei compiti da svolgere, la sovrapposizione dei compiti, la rigidità e monotonia della mansione, il sottoutilizzo della capacità ed abilità, la frammentarietà e la mancanza di significato del lavoro, ecc.;
– carico e ritmo di lavoro: riguarda carichi di lavoro eccessivi o scarsi, la possibilità di controllare il ritmo dell’attività, livelli elevati di pressione in relazione al tempo, la responsabilità per la vita e l’incolumità di terzi, la necessità di collaborare con operatori di altre organizzazioni, la necessità di entrare in contatto con soggetti di differente etnia o cultura, ed in generale con una utenza “ socialmente” difficile, ecc;
– orario di lavoro: riguarda il lavoro a turni, i turni notturni, orari di lavoro non flessibili, orari imprevedibili, superamento dell’orario ordinario, pause di lavoro troppo brevi o scarsamente definite, ecc.
Che cosa fare individualmente per sé e per i colleghi ( oltre a quanto di competenza del datore di lavoro)
Poiché il benessere organizzativo, ed il suo reciproco: lo stress lavoro-correlato, sono condizioni che vedono fortemente interessati e coinvolti tutti gli “attori” implicati nell’attività lavorativa, e premesso che nel determinare queste due dimensioni (benessere/distress) interagiscono fattori organizzativo-ambientali (esterni) e fattori personali-soggettivi (interni), è evidente che anche i singoli – oltre a dover mettere in atto le misure individuate dal datore di lavoro – possono fare la loro parte, per se stessi e per i colleghi, per ridurre o eliminare lo stress lavoro-correlato.
Qui di seguito vengono presentate delle indicazioni di massima per affrontare individualmente la sfida che lo stress pone ad ogni lavoratore, compresi gli operatori di polizia e del soccorso:
Farsi parte attiva nell’acquisire e far proprie le conoscenze essenziali sul tema “stress” e “stress lavoro-correlato”, imparando a riconoscere i segnali precoci di distress in sé stessi e negli altri;
Assumere un atteggiamento tendenzialmente attivo, di confronto con le situazioni problematiche, non confondendo le cause (gli stressori), con gli effetti (la risposta di stress), perché mentre sui primi potremmo non avere alcun controllo, sulla risposta di stress, che è personale, abbiamo sempre dei margini, più o meno ampi, per agire efficacemente a tutela della nostra salute;
Comprendere fino in fondo che gestire lo stress lavorativo, oltre ad essere un’incombenza giuridicamente prevista a carico del datore di lavoro, è un nostro personale e pressante “dovere” nei confronti di noi stessi, in quanto potenziali vittime dei danni alla integrità psico-fisica che lo stress può comportare;
Focalizzarsi e prendere consapevolezza di quali siano i nostri reali fattori di stress, lavorativi ed extra-lavorativi, di come essi si influenzino reciprocamente, di quali siano gli aspetti del proprio lavoro che creano maggiore tensione o disagio, di quali siano le usuali strategie adottate per affrontare le difficoltà ed il loro livello di efficacia;
– Dare un ordine di importanza a questi fattori, valutando i rispettivi margini di gestione a livello individuale, al fine di decidere le priorità nelle azioni personali da intraprendere per il miglioramento del proprio benessere;
Chiedersi quanto la propria percezione dell’ambiente lavorativo, di noi stessi implicati in quel contesto e di quanto di significativo vi ruota intorno sia realistica, ed in particolare se:
– Siamo in grado di distinguere ciò che è modificabile, e quindi almeno parzialmente sotto il nostro controllo, da ciò che non lo è, e pertanto può essere unicamente accettato
– Vi siano strategie alternative a quelle che stiamo adottando per affrontare meglio la situazione
– Eventuali conflittualità interpersonali derivino da punti di vista differenti sul contenuto del contendere, o se invece siano da attribuire a problematiche relazionali
– Siamo in grado di essere o divenire consapevoli di cosa e come stiamo comunicando, oltre che degli effetti che induciamo nei nostri interlocutori
– Siamo abituati a distinguere tra cose importanti ed urgenti, e pertanto a gestire nel modo migliore il nostro tempo sul luogo di lavoro (e non solo).
Prendersi cura del proprio corpo: dedicandosi ad una attività fisica regolare, curando la propria alimentazione in modo adeguato, controllando il peso corporeo, evitando o limitando sostanze nocive come tabacco, caffè, alcool; prendendosi delle giuste pause, evitando l’automedicazione con farmaci ad azione sul sistema nervoso (ansiolitici, ipnotici ecc.), imparando tecniche di rilassamento come la respirazione diaframmatica o il rilassamento muscolare progressivo, effettuando periodici check-up per il controllo della pressione arteriosa, dei valori glicemici e di colesterolo ecc;
Imparare a pensare e vivere “positivo”:
– Dicendosi “bravo/a” quando facciamo bene il nostro lavoro
– Ponendosi obiettivi a corto raggio e vivendo il senso di soddisfazione al loro raggiungimento
–  Approcciando il collega e/o l’utente senza pregiudizi negativi
–  Vivendo le critiche come possibilità di crescita e maggiore autoconsapevolezza, e non unicamente come affronto personale
– Imparando a cercare e trovare punti di accordo, vicinanza  e somiglianza con gli altri (sintonia), piuttosto che ipertrofizzando le distanze e le differenze (distonia)
– Riconoscendo che se il bicchiere è mezzo vuoto, vuol dire che almeno per l’altra metà è pieno
– Ricordando anche ciò che di positivo è stato ottenuto, conquistato, concesso e non solo quanto vi è ancora da migliorare e da raggiungere
– Rivedendo la nostra scala di valori e privilegiando nei fatti le persone e le cose a cui teniamo di più e che sono per noi veramente importanti
– Divenendo meno inflessibili con noi stessi, cercando qualcosa di meno della perfezione in se stessi e negli altri, prendendo consapevolezza che non si può prevedere e controllare tutto nella vita, ammettendo la prospettiva di dover chiedere aiuto agli altri per affrontare frangenti difficili
Imparare a pianificare le proprie attività ed a gestire intelligentemente il tempo, privilegiando le cose contemporaneamente importanti ed urgenti, poi quelle urgenti e non importanti, dopo ancora quelle importanti e non urgenti, ed infine quelle non importanti  né urgenti
Essere consapevoli che, oltre un certo limite, reprimere, nascondere o negare le proprie emozioni è una carta perdente, mentre la condivisione di stati d’animo difficili da gestire con persone di cui ci fidiamo è una grande risorsa a cui possiamo ricorrere
Mettere in conto la possibilità che nella vita, di fronte a momenti di particolare difficoltà sia di natura privata che conseguenti a fatti di servizio di una certa gravità – compresi quelli a valenza psicotraumatica –  può essere necessario ricorrere all’aiuto di un esperto di counselling, di un coach,  di uno psicoterapeuta, o di uno psichiatra, senza che questo significhi che siamo pazzi o “senza schiena”
Imparare a ridere di sé stessi, a fare una sana autoironia e a non prendersi troppo sul serio
Impegnarsi in attività di gruppo esterne all’ambiente di servizio: gruppi sportivi, di volontariato e promozione sociale, associazioni culturali, gruppi spirituali, ecc., i quali possono darci quegli stimoli e quelle gratificazioni che sono assenti o scarsi nel nostro ambiente lavorativo
Impegnarsi nel promuovere nell’ambito lavorativo lo spirito di squadra e una cultura improntata alla solidarietà ed al reciproco sostegno.

Luigi Lucchetti, presidente on. di AIGESFOS-APS
Felix B. Lecce, presidente di AIGESFOS-APS

 

Lo stress cronico: la sindrome del burnout negli operatori delle forze dell’ordine e del soccorso

“Le persone pagano un prezzo molto alto per fare da guardiani ai propri fratelli e sorelle” (Cristina Maslach).

Nelle professioni di aiuto, oltre alle competenze tecniche, è richiesto un rapporto emotivo con le persone, fattore che risulta centrale nello svolgimento dell’attività lavorativa.
In questa tipologia di professioni la pressione emozionale derivante dallo stretto contatto con la gente è una componente costante dell’attività lavorativa quotidiana. Pensiamo ad esempio a medici, vigili del fuoco, operatori di polizia, insegnanti assistenti sociali, operatori della salute mentale, ecc.
Il seguente contributo si focalizzerà sui rischi psicologico-relazionali evidenziando l’alto prezzo che può essere “pagato” dagli operatori delle Forze dell’Ordine e del Soccorso e le strategie di supporto che possono essere impiegate per affrontarli e ridurli.
Sindrome del burnout
Burnout: termine introdotto nel 1974 da Herbert J. Freudenbergen per indicare un quadro sintomatologico caratteristico di operatori di servizi comunitari particolarmente esposti a condizioni di tensione dovuta ad un rapporto diretto e continuativo con una utenza particolarmente disagiata o difficile.

Traduzione in italiano di “burnout”: scoppiato, bruciato, usurato, cortocircuitato, esaurito, fuso, cotto.

“Una sindrome di esaurimento fisico ed emotivo che porta allo sviluppo di un concetto negativo di sé, un’attitudine negativa verso il lavoro, e la perdita di empatia e di interessi nei confronti dell’utenza” (Pines, Maslach)

Le tre dimensioni costitutive della sindrome del burnout
1. l’esaurimento emotivo: la sensazione di ritrovarsi sfiniti, logorati, inariditi, svuotati delle proprie energie e risorse emotive, come conseguenza del costante sovraccarico emozionale indotto dal lavoro in stretto contatto con l’utente.

2. la depersonalizzazione: l’insieme di atteggiamenti negativi fino al cinismo maturati nei confronti delle persone a cui è indirizzata la prestazione e che danno origine all’agire freddo, meccanico e distaccato spesso manifestato dagli operatori colpiti dalla sindrome.

3. la ridotta realizzazione professionale: il declino del proprio senso di competenza e di efficacia professionale ed il prevalere di una sensazione di inadeguatezza, o meglio di una autovalutazione negativa espressa sia nei confronti di se stessi che della complessiva prestazione lavorativa espletata in favore degli utenti.

Chiave interpretativa del burnout
Alcuni autori ritengono che il burnout derivi da una mancanza di reciprocità sperimentata nelle relazioni sociali di scambio, ad un livello sia interpersonale che organizzativo.

Le Helping Professions sono professioni caratterizzate da un ruolo “genitoriale” in cui l’operatore è chiamato sempre a dare, mentre nei più comuni rapporti umani dare ed avere sono compresenti. Infatti l’umanità a cui queste professioni (poliziotti, medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, religiosi, operatori sociali) sono rivolte ed a cui sempre “dare” è quella sofferente, debole, bambina o deviante.
La mancanza di reciprocità si sperimenta quando si percepisce che le energie investite non sono proporzionali alle “ricompense” ottenute in cambio.

Le manifestazioni somatiche del burnout
o senso generale di affaticamento ed esaurimento;
o insonnia, incubi;
o disturbi gastrointestinali ed ulcera;
o mal di schiena, vulnerabilità alle infezioni;
o cefalee frequenti, palpitazioni, dispnea;
o modificazione delle abitudini alimentari in eccesso o in difetto con conseguenti cambiamenti ponderali;
o difficoltà nella sfera sessuale.

Le manifestazioni psichiche del burnout
o senso di incapacità e di impotenza, apatia;
o ansia, rigidità del pensiero, paranoia;
o ossessioni, fobie;
o persistenti sensi di colpa, depressione fino al suicidio (eccezionalmente);
o atteggiamento negativo verso se stessi, il lavoro, gli altri e la vita in generale;

Le manifestazioni comportamentali del burnout
o condotte di ritiro ed isolamento;
o incapacità di chiedere aiuto e di fruire di una rete di sostegno;
o difficoltà di concentrazione, fuga dalle responsabilità;
o irritabilità e risentimento, conflitti interpersonali ed antagonismo;
o diminuzione dei contatti con l’utenza;
o frequenti ritardi sul posto di lavoro, assenteismo;
o rendimento lavorativo ridotto;
o ricorso all’alcool, sostanze stupefacenti o farmaci psicotropi;
o divorzio, dimissioni, comportamenti violenti;
o coinvolgimento in problematiche penali, civili e disciplinari.

Conseguenze negative del burnout
Livello individuale: sofferenza fisica ed emotiva dell’operatore con riflessi negativi sull’ambiente familiare e le relazioni interpersonali intime;

Livello dell’ambiente lavorativo: contrasti interpersonali, ridotto rendimento, assenteismo, fuga dalle proprie responsabilità, danno all’immagine dell’istituzione;

Livello dell’utenza: diminuzione della qualità e quantità dei servizi fruiti, vissuti di spersonalizzazione, perdita di fiducia nelle istituzioni che erogano servizi alla persona.

Livello della società: danni economici connessi ai punti precedenti, maggiore prevalenza dei disturbi mentali e da uso di sostanze, aumento dei contenziosi legali, sfiducia verso i programmi di intervento sociale, per la salute e la sicurezza attuabili dallo Stato.

Livello di analisi del burnout
Individuale: centrato sulle caratteristiche socio-demografiche (sesso, stato civile, età, livello culturale, anzianità di servizio, ecc.) e personologiche;

Organizzativo-ambientale: indirizzato a fattori come le caratteristiche dell’utenza ed il tempo trascorso con essa, il rapporto con colleghi e superiori, le prospettive di carriera, le modalità della supervisione, le caratteristiche dell’ambiente lavorativo, i vincoli burocratici all’interno dell’organizzazione;

Socio-culturale: rivolto a caratteristiche quali il riconoscimento sociale di determinate professionalità, l’atteggiamento nei confronti degli errori attribuiti a questi operatori, la trasformazione subita da alcune istituzioni in conseguenza dei mutamenti socio-culturali, i problemi socio-economici incidenti sulle modalità di svolgimento di particolari attività lavorative.

“Soffermare l’attenzione unicamente sulla personalità degli operatori colpiti dalla sindrome sarebbe come scegliere di “analizzare la personalità dei cetrioli per scoprire perché sono diventati sottaceti, senza però analizzare il barile di aceto in cui sono stati immersi!” (Cristina Maslach)

Analogamente inopportuno sarebbe cercare dei capri espiatori in quanto “Il fenomeno è tanto diffuso, le persone colpite tanto numerose, le loro personalità e retroterra tanto vari che non ha senso identificare nei <<cattivi>> la causa di quello che è chiaramente un risultato indesiderabile”. (Cristina Maslach)

Fattori specifici che possono contribuire allo sviluppo del burnout nelle Forze dell’Ordine
1- Conflitto o ambiguità di ruolo: si determina quando un operatore di polizia percepisce una incompatibilità tra il comportamento richiesto dal proprio ruolo e le motivazioni ed i valori personali, o uno scompenso fra le richieste della situazione lavorativa e le risorse individuali. Si deve al riguardo osservare come a partire dagli anni ’80 il livello culturale degli operatori di polizia si sia notevolmente innalzato anche e soprattutto nei ruoli più propriamente esecutivi, determinando oggettivamente un divario fra livello del compito svolto e consapevolezza del proprio valore e delle ambizioni personali.

2- Conflitti con i superiori: l’aumentata dialettica con la gerarchia che si è registrata successivamente alla smilitarizzazione ed al diritto di rappresentanze sindacali può rappresentare un fattore che, attraverso le tensioni che si innescano nell’ambiente lavorativo, contribuisce all’insorgenza dell’esaurimento emotivo che per molti rappresenta la spinta iniziale per l’evolversi della sindrome.

3- Conflitti con i colleghi: derivanti dalla rivalità e dalla competizione interpersonale che si accentuano generalmente in mancanza di una leadership autorevole. Il supporto dei colleghi viceversa rappresenta un fattore protettivo nei confronti delle situazioni stressanti e dei momenti di crisi.

4- Incidenti critici: le sequele psicologiche non adeguatamente superate di eventi a forte impatto emotivo possono contribuire allo sviluppo della sindrome.

5- Mancanza di un’adeguata supervisione: il maggiore livello culturale degli operatori di polizia, la più generale tendenza all’individualismo presente nella società, l’aumentato carico di responsabilità assunto dai ruoli superiori con diminuzione del tempo a disposizione per le singole attività, il divario generazionale che man mano tende ad incrementarsi anche fra soggetti con pochi anni di distanza anagrafica, contribuiscono a “sfocare” l’importanza di un’adeguata supervisione che riveste invece un fattore protettivo nei confronti del burn-out.

6- Difficoltà nelle relazioni familiari: il rapporto fra relazioni familiari e burn-out è bidirezionale; se da una parte più alti livelli di burn-out implicano maggiori tensioni familiari, dall’altra importanti difficoltà in ambito familiare contribuiscono a generare maggiore stress e rischio di burn-out.

7- Difficoltà ad esprimere i propri sentimenti ed emozioni: molti ritengono che questo sia uno dei principali fattori responsabili dell’insorgenza del burnout. Ciò è dovuto sia a fattori culturali che vogliono il poliziotto distaccato ed imperturbabile, che alle caratteristiche del contesto organizzativo, il quale induce gli operatori a mantenere un aspetto esteriore di professionalità, anche quando si fa schermo di sentimenti ed emozioni che rimangono inespressi.

8- Limiti della formazione professionale: specialmente in passato causati da necessità di immettere rapidamente in servizio gli operatori per le pressanti esigenze di sicurezza; la formazione risente di limiti culturali del nostro paese in cui si tende ancora a privilegiare nettamente l’istruzione rispetto all’acquisizione del saper fare e del saper essere.

Ricerche sulla sindrome del burnout nelle forze dell’ordine italiane
Gli studi relativi alle forze dell’ordine italiane sono scarsi e condotti su un numero limitato di operatori di polizia. dagli stessi si possono ricavare le seguenti indicazioni di massima:
• Le donne dichiarano livelli di burnout superiori a quelli degli uomini (esse sono solamente più sincere o viceversa più a disagio?);
• Gli uomini evidenziano un maggior grado di soddisfazione lavorativa (perché impiegati in mansioni più significative o perché meno sinceri?);
• I soggetti che hanno un punteggio medio più alto nella scala del burnout sono quelli ai primi anni di servizio (ciò a causa di una tipologia di impiego più gravosa o in quanto non hanno ancora sviluppato adeguate strategie di coping?);
• Gli operatori di polizia che hanno un’anzianità di servizio tra gli 11 e 20 anni evidenziano maggiori livelli di soddisfazione lavorativa (perché più effettivamente realizzati nel lavoro o in quanto hanno attese più realistiche riguardo lo stesso?)
Le due dimensioni del burn-out e della soddisfazione lavorativa, appaiono comunque inversamente proporzionali.
• I punteggi più bassi vengono registrati nei soggetti che svolgono attività investigativa: ciò sembra confermare che il feedback positivo che si ricava dalla propria attività lavorativa rappresenta un fattore protettivo nei confronti del burn-out;
• Per quanto riguarda le variabili demografiche l’unico elemento significativo riscontrato è quello della correlazione negativa fra burn-out e numero dei figli. ciò sembra poter essere spiegato con le maggiori risorse di coping acquisite da chi è abituato a risolvere i problemi con i figli, e con la minore polarizzazione sul lavoro di chi ha una famiglia e dei figli riguardo alle attese di realizzazione personale.

Linee guida: Strategie per promuovere il benessere nelle forze dell’ordine e ridurre il rischio di burnout
• realizzare un turn-over più attento nelle attività maggiormente a rischio di burnout;
• aumentare le possibilità di progressione di carriera con un maggior ricorso al reclutamento dall’interno dell’istituzione attraverso il bando di concorsi interni;
• investire maggiori risorse nella formazione indirizzata a fornire:
o competenze adeguate per sviluppare una leadership autorevole da parte dei ruoli superiori;
o competenze adeguate di carattere relazionale per i ruoli più direttamente a contatto con l’utenza;
o conoscenze approfondite riguardo la problematica generale dello stress lavorativo, ed in particolare del burn-out, e delle strategie di coping per affrontarlo;
o consapevolezza degli aspetti conflittuali impliciti nella vita lavorativa e delle possibilità di confronto con tali situazioni;
o potenziamento delle competenze comunicative sia per quanto riguarda le relazioni interne che nei confronti dell’utenza.

Stress lavorativo e malattie cardiovascolari nel personale delle forze di polizia

Le malattie cardiovascolari, ed in particolare l’ipertensione arteriosa e la cardiopatia ischemica, sono tra le infermità per le quali più frequentemente gli operatori di polizia inoltrano la domanda per la dipendenza da causa di servizio.
Nella maggior parte dei casi (circa il 90%) non è facile stabilire con certezza le reali cause all’origine della patologia ipertensiva. Sono noti alcuni fattori predisponenti, che nel loro insieme, favoriscono la comparsa della malattia, di seguito riportati:
aumentato tono del sistema nervoso simpatico
diminuita capacità del rene ad eliminare sodio
fattori genetici
fattori alimentari
condizioni di stress sociale
sedentarietà
invecchiamento.
L’ipertensione secondaria, ovvero quella forma di ipertensione che insorge come conseguenza di altre malattie, ha invece delle cause di origine ben definite. Questa patologia che rappresenta soltanto il 5-10% di tutti i casi di ipertensione può essere causata da:
malattie del rene
malattie dei grandi vasi (coartazione aorta)
malattie endocrine
farmaci (cortisonici, amine simpaticomimetiche).
L’ereditarietà o familiarità della patologia influisce per circa il 30% sulla possibilità d’insorgenza dell’ipertensione. Per questo motivo un soggetto che ha dei familiari ipertesi, avrà un maggior rischio (ma non la certezza assoluta) di sviluppare la malattia.
Nella persona anziana l’ipertensione è legata soprattutto ad un aumento della pressione massima o sistolica, mentre nella fascia di età compresa tra i 20 ed i 50-55 anni si registra solitamente un aumento sia della massima che della minima.
L’uomo ha un rischio elevato di sviluppare la malattia intorno ai 30-40 anni. Nelle donne tale rischio, inferiore prima della menopausa, arriva dopo i 45-50 anni fino al 50% per poi aumentare ulteriormente dopo i 65 anni.
La dieta ideale rivolta alla prevenzione e/o alla cura dell’ipertensione ha come obiettivi principali il calo ponderale e la restrizione di sodio ed alcol. Nello stadio iniziale della malattia, denominato pre-ipertensione, molto spesso la semplice correzione delle abitudini dietetiche è sufficiente a diminuire i valori pressori.
La ridotta attività fisica costituisce un altro importante fattore di rischio.
Il fumo di sigaretta è un potente vasocostrittore, riduce l’ossigenazione dei tessuti e facilita la formazione di placche aterosclerotiche. L’alcol, a piccole dosi ha invece un effetto benefico grazie alle sue proprietà vasodilatatrici, effetto che si inverte quando assunto a grandi dosi.
In molti casi lo stress psichico influisce a tal punto sulla comparsa dell’ipertensione da essere considerato il principale fattore causale. Tra le condizioni più a rischio vi sono: collera trattenuta, ricorrenti arrabbiature, intense emozioni, gravose responsabilità lavorative o eccessivo impegno nel lavoro.
L’esposizione cronica al rumore potrebbe avere un ruolo nell’ipertensione arteriosa, attraverso un meccanismo d’azione stress-correlato. La fisiologica e transitoria risposta di stress al rumore indotta dal sistema nervoso simpatico e dal sistema neuroendocrino diverrebbe patologica quando attivata cronicamente e ripetutamente. Così il temporaneo incremento della pressione sanguigna, diventando permanente, genererebbe una condizione di ipertensione.
Il termine cardiopatia ischemica racchiude in sé uno spettro di condizioni patologiche in cui si verifica una discrepanza tra il consumo e l’apporto di ossigeno al miocardio.
All’origine della cardiopatia ischemica possono esserci numerose patologie, tutte accomunate dal diminuire l’apporto di sangue al cuore.
Tra queste le forme più comuni di manifestazione clinica sono:
Sindromi coronariche croniche:
angina cronica stabile o da sforzo
Sindromi coronariche acute:
angina instabile
infarto miocardico
insufficienza cardiaca
morte improvvisa
ischemia silente.
La causa principale della cardiopatia ischemica è la malattia aterosclerotica a carico delle arterie coronariche.
L’aterosclerosi è una malattia degenerativa che favorisce il deposito di aggregati di grassi ed altre sostanze nella parete interna delle arterie. Tali depositi diminuiscono il lume vasale e l’elasticità delle pareti. Costretto a passare in un vaso di calibro ristretto, il sangue subisce un aumento di pressione mettendo a rischio l’integrità stessa dell’arteria.
Il restringimento, quando diventa importante, altera la normale circolazione in quanto favorisce la formazione di trombi che si possono staccare dalla placca arterosclerotica ed andare ad ostruire vasi di calibro minore. Lo stesso trombo, oltre a restringere direttamente il vaso, agisce anche indirettamente favorendo la sintesi di trombossano, un potente vasocostrittore.
All’interno delle coronarie, quando l’ostruzione raggiunge il 50%, cominciano a presentarsi problemi piuttosto seri, dato che quel vaso non è più in grado di soddisfare completamente le richieste metaboliche delle cellule irrorate.
L’ischemia locale altera il comportamento elettrico dell’intero cuore generando aritmie che possono mettere in serio pericolo l’efficienza della pompa cardiaca. Contemporaneamente il ridotto afflusso di sangue ed ossigeno diminuisce per meccanismo riflesso la forza di contrazione cardiaca, aggravando ulteriormente la situazione.
La gravità e la durata dell’ischemia determina la reversibilità o meno del danno cardiaco. Se l’ischemia perdura nel tempo, la cellula cardiaca può sopportare per circa 20-360 minuti la carenza di ossigeno e nutrienti, dopodichè muore. La necrosi cellulare viene chiamata infarto e se coinvolge un numero importante di cellule può essere fatale per l’individuo.
Una volta morte, queste cellule non riacquistano più la loro funzionalità, ma vengono sostituite da tessuto cicatriziale fibroso elettricamente e meccanicamente inerte.
L’angina è invece un ischemia miocardica transitoria con carattere di reversibilità. Si definisce stabile se si associa a sforzo fisico costante e non subisce modificazioni significative nel tempo, instabile se è di recente insorgenza, ingravescente e compare anche a riposo.
I fattori di rischio della cardiopatia ischemica sono rappresentati da:
fumo
diabete mellito
dislipidemia
ipertensione
sedentarietà
obesità
iperomocisteinemia
condizioni di stress.
Sia l’ipertensione arteriosa che la cardiopatia ischemica rappresentano dunque malattie a genesi multifattoriale, in cui entrano in gioco fattori endogeno-costituzionali (come per esempio la familiarità), ed altri ambientali.
Tra questi ultimi, come detto, in ambedue i casi, vi è il ruolo svolto dallo stress psico-fisico, con meccanismi patogenetici noti e ben descritti in letteratura. Il ruolo dello stress è molto importante perché rappresenta il fattore di gran lunga più invocato a sostegno della dipendenza da causa di servizio delle infermità cardiovascolari da parte di molte categorie di lavoratori.
L’associazione tra stress e cardiopatie è infatti molto antica: Galeno, già nel 170 d.C., nel Microtechne, affermava che “le intense emozioni possono provocare disturbi del ritmo cardiaco”.
La letteratura ha messo più volte in evidenza come determinate modalità di lavoro siano associate con un rischio elevato di sviluppare ipertensione arteriosa, che è indipendente ed additivo rispetto al rischio conferito all’aumentare dell’età.
Di contro, è pure noto come modificazioni dello stile di vita, dei regimi e dei ritmi lavorativi possano comportare notevoli benefici nel controllo della ipertensione arteriosa. Uno dei motivi che facilitano il controllo dell’ipertensione arteriosa nei pazienti ospedalizzati è infatti, per quanto attuabile, lo stato di isolamento dagli stress emotivi e ambientali. In rari casi è addirittura necessario l’abbandono di determinate attività lavorative.
Dal punto di vista fisio-patologico lo stress lavorativo può costituire un fattore di rischio cardiovascolare con meccanismi sia diretti che indiretti. I primi si riferiscono all’attivazione neuro-ormonale e neurovegetativa, in relazione ai comportamenti attivi e passivi necessari per affrontare determinati compiti ed attività, con stimolazione del sistema nervoso autonomo e aumentata secrezione neurormonale, soprattutto di catecolamine e cortisolo. Gli effetti che ne conseguono agiscono sulla pressione arteriosa, sul ritmo e sulla frequenza cardiaca, sulla circolazione periferica, sui processi emo-coagulativi, sul metabolismo glucidico e lipidico. I meccanismi indiretti sono rappresentati da modificazioni degli stili di vita (alimentazione, scarsa attività fisica, abitudine al fumo ed al consumo di bevande alcoliche), nonché dalle interferenze sul piano psico-relazionale, sia in ambito familiare che sociale.
Particolare importanza nel condizionare gli effetti sulla salute hanno le modalità di risposta (coping) più o meno adeguate che il soggetto è in grado di mettere in atto; oltre che dalla intrinseca complessità del compito, esse dipendono dalle singole capacità dell’individuo, con interferenza di numerosi fattori quali: la regolazione del sistema nervoso autonomo (a partire dal ritmo sonno/veglia), le condizioni ambientali (ad es. rumore, illuminazione, ecc.), l’assunzione di farmaci o di alcol, la presenza di malattie concomitanti, la spinta motivazionale, lo stato emotivo, ecc.
Lo stress in gioco è di tipo sub-acuto o cronico, ossia riferibile a quelle condizioni lavorative in cui vi è una prolungata e persistente situazione di mancata o ridotta possibilità di “controllo” del lavoro, condizionato da carichi di lavoro eccessivamente elevati, scarsa prevedibilità, necessità di costante attenzione, persistente presenza di pericolo e di rischio.
In termini generali, dagli studi più autorevoli emerge una relazione abbastanza chiara tra cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa e alcune condizioni di lavoro, in particolare i lavori caratterizzati da scarsa attività fisica, i compiti ad alta richiesta psichica, ma con scarsa capacità di controllo, e il lavoro a turni (con rischio che aumenta in relazione all’anzianità di turno).
In un lavoro che ha criticamente preso il rapporto tra strain lavorativo e cardiopatia ischemica, effettuato in gruppi di lavoratori maschi di diversi settori lavorativi, tra il 1983 e il 1998, si è evidenziata una associazione significativa tra attività lavorative comportanti alte richieste psicologiche, sia con la morbilità per angina pectoris che con la mortalità per infarto del miocardio. Anche in relazione alla pressione arteriosa, vi sono molte evidenze per una relazione positiva tra stress lavorativo ed ipertensione arteriosa.
Murphy, in una ricerca avente per oggetto l’associazione tra 32 diverse caratteristiche del lavoro e le condizioni di disabilità dovute a malattie cardiovascolari, ha rilevato come le quattro condizioni maggiormente associate a tali patologie siano rappresentate da:
situazioni di pericolo;
attività che richiedono alti livelli di vigilanza e di responsabilità verso gli altri;
compiti con elevati livelli di scambio di informazioni;
controllo di apparecchiature complesse.
È dimostrato come tali condizioni, ben presenti nel lavoro di un operatore di polizia, siano correlate allo stress occupazionale e costituiscano un indubbio fattore di rischio per malattie cardiovascolari, con particolare riferimento alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa. Importanti studi evidenziano poi fattori di rischio aggiuntivi per la cardiopatia ischemica nel personale di polizia penitenziaria, professione particolare, a ragione delle insidiose dinamiche psicopatologiche dei contenuti di questa attività lavorativa.
Nonostante questi dati, nella quasi totalità dei casi inerenti il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio dell’ipertensione arteriosa, il Comitato di Verifica si esprime negativamente. L’ambito giuridico di riferimento, peraltro, consentirebbe, in teoria, anche il riconoscimento dell’aggravamento di patologie preesistenti al rapporto di impiego, comprese quelle di natura endogena o addirittura congenita, sempreché se ne dimostri un più rapido aggravamento (ai sensi dell’art. 2 comma 2 del DPR 461/01).
Seppure l’appartenenza a categorie lavorative a rischio (nel caso delle malattie cardiovascolari ampiamente comprovata dalla letteratura scientifica quella dell’operatore di polizia) non possa comunque comportare il pregiudiziale riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di patologie stress-correlate come l’ipertensione arteriosa e la cardiopatia ischemica, è chiaro come l’analisi medico-legale, partendo dai contenuti ineliminabili della particolare prestazione lavorativa (costante stato di allarme, responsabilità verso terzi, pericolo per la propria incolumità, necessità di contrastare situazioni di urgenza, ecc.) debba accertare: 1) la qualità ed il quantum di questi fattori e 2) la presenza di ulteriori situazioni che possano giocare un ruolo nel determinismo della patologia (turnazioni, entità di lavoro straordinario effettuato, eventi critici di servizio, ecc.).
L’analisi della predisposizione endogeno-costituzionale, certamente importante, non deve quindi assumere il significato di elemento esclusivo per la formazione del giudizio medico-legale, soprattutto alla luce dell’ambito giuridico di riferimento, ma va confrontata con tutti gli altri fattori in gioco.

di Fabrizio Ciprani, Specialista in Medicina Legale e Medicina del Lavoro

 

Il suicidio nelle forze di polizia: come prevenire

I recenti e gravi atti suicidari registrati nelle Forze di Polizia Italiane, che in alcuni casi hanno coinvolto tragicamente anche la vita di terzi, ci spingono a fare una riflessione lucida ed equilibrata su un fenomeno così doloroso, cercando di affrontarlo in una prospettiva concreta
rivolta ad individuare gli strumenti di una possibile prevenzione, anziché ricorrere alla posticcia ricerca di capri espiatori. Innanzitutto proviamo ad avvicinarci alla realtà psicologica e sociale del fenomeno, ponendoci delle domande e cercando di dare in primis a noi stessi risposte autentiche.
L’interrogativo sulle ragioni del comportamento attraverso cui un individuo giunge a togliersi volontariamente la vita, trascinando non raramente altri nella spirale della propria morte,  è stato e rimane uno dei più grandi enigmi e delle più stimolanti sfide sia per coloro che si occupano di scienze biologiche, che per quanti si interessano di scienze umane.
La gente comune si chiede più semplicemente che cosa possa rendere l’individuo incapace di tenere sotto controllo quella che viene considerata la scelta più irrazionale che la mente umana possa decidere di compiere: sopprimere sé stessi, darsi la morte, rinunciare volontariamente al bene per eccellenza, la vita. L’estrema difficoltà che la maggior parte delle persone ha di pensare e confrontarsi con una realtà così difficile da accettare, ma al contempo assolutamente banale: la possibilità che ciascuno di noi ha di rinunciare volontariamente alla vita, è esemplificata dai numerosi eufemismi e sinonimi con cui viene appellato il suicidio.
Per la maggior  parte  delle persone, anche quando vivere non è più bello(semmai lo sia stato), è imperativo esistere ad ogni costo, accontentandosi magari di sopravvivere tra le sventure piccole e grandi che qualunque vita comporta, vuoi perché considerata virtù tipicamente umana o, forse più spesso, in quanto scelta obbligata a ragione di quella atavica angoscia che ci difende e ci fa arretrare di fronte all’ignoto, ad un aldilà ancora completamente inesplorato. Questo timore del luogo dal quale nessuno ritorna, che ha impedito a molti di noi di scegliere la morte – a causa del dolore della malattia, dell’ingiustizia della legge umana, della rabbia impotente di fronte al persecutore di turno, del rifiuto o del tradimento di chi amiamo, della colpa per ciò che non doveva essere fatto, della vergogna di fronte al pubblico ludibrio – facendoci restare aldiquà, può essere non infrequentemente superato, ed oltrepassato ad un punto tale che il deserto dell’esistere giunge a sovrastare la paura dell’ignoto, ed a farne varcare volontariamente la soglia.
Nessuno conosce così bene la concretezza di questa realtà quanto gli psichiatri, gli altri professionisti della salute mentale, il personale sanitario del soccorso pubblico e gli operatori delle Forze di Polizia. I medici tendono spesso ad evitare l’idea e l’esperienza emotiva  della morte pur essendo quest’ultima l’evento più certo e naturale dell’esistenza, ma anche il più prossimo alla loro professione. Una ragione di ciò si può trovare nei più profondi luoghi della scelta professionale dove spesso si annidano timori tanatofobici e nosofobici, con i relativi bisogni di onnipotenza e di proiezione sugli altri del male – malattia. Psichiatri e psicologi, specialmente quelli che lavorano con i pazienti più gravi, sono costretti quotidianamente a vivere con il fantasma della potenzialità suicidaria di chi hanno in cura e, spesso, si rispecchiano pericolosamente in quegli abissi di estrema sofferenza.
Ma anche le ragioni della scelta professionale dell’operatore di polizia possono essere complesse, ed a volte difficilmente permeabili all’esterno oltre che da egli stesso traducibili. La sete di individuazione e di superiorità; l’illusione di poter controllare la realtà, compresa quella intrapersonale; il bisogno di separare nettamente il bene dal male perpetrabile dall’uomo, per porre il negativo fuori da sé; il sogno di viversi come paladini della vita e del benessere altrui – interpretando una mitologia eroica  che  al passo dei tempi si aggiorna nelle sembianze pur rimanendo immutato il bisogno di alterità che la sottende –  possono trovare appagamento e realizzazione attraverso il ruolo di difensore della Legge: tutto questo appare estremamente rassicurante, oltre che affascinante.
Questo soggetto che deve fornire agli altri sicurezza non può, per definizione, che essere estremamente sicuro di sé, e cosa c’è di maggiormente ansiogeno dell’essere umano che attenta alla propria vita? Ansiogeno certamente per la gente comune, ma ancora di più per i suoi più diretti simili quando si tratta di operatori di polizia, perché ne fa vacillare il sentimento più o meno autentico, ma  indispensabile, di sicurezza.
E le stesse Istituzioni di cui essi sono parte tremano perché all’interno del mito, certamente in affanno ma mai messo in discussione, di essere una “famiglia”, sentono più o meno confusamente il dovere di proteggere i propri figli prima di quelli degli altri – non fosse altro per il fatto che i primi dovrebbero tutelare i secondi – e di fronte al suicidio di uno di loro si confrontano con il senso di colpa e di vergogna per non essere riusciti ad adempiere al loro primo mandato.
Noi riteniamo che questi ultimi sentimenti rappresentino l’elemento fondamentale che fino ad oggi ha determinato nel nostro Paese quella sorta di ritroso pudore rispetto all’argomento suicidio nelle Forze di Polizia che si registra al loro interno.
E poi, come succede in qualsiasi famiglia quando un figlio esce dal “seminato”, ci si interroga se sia il caso di parlarne  – visto che le altre non esternano simili difficoltà – e si rimane nel dubbio se ciò sia dovuto alla buona salute dei loro membri, o alla difficoltà ad ammetterne il malessere.
Ma con la Società intera che in questi ultimi anni è cambiata, e dove sono mutate le stesse fondamenta delle Istituzioni che si confrontano con cittadini ormai divenuti maggiorenni, non può non trasformarsi anche il rapporto tra le Forze di Polizia ed i loro “appartenenti”. Essi devono essere considerati e considerarsi non più figli minorenni per i quali il genitore assume di sé ogni incombenza, ma prole adulta e responsabile – innanzitutto di sé stessa – su cui semmai esercitare una matura supervisione.
Se entriamo in questo nuovo paradigma, anche le nebbie del senso di colpa irrazionale tenderanno a dileguarsi permettendo di guardare una realtà su cui tentare di agire concretamente, senza la semplicistica illusione di poterla dominare e la successiva, inevitabile, delusione del fallimento.
Pertanto riteniamo necessario muoversi in tale direzione, senza l’enfasi delle emozioni momentanee ed il clamore, ancor più effimero, di tanti notiziari che accompagnano i funerali degli operatori di polizia suicidi e, meno che mai, dell’assordante rumore del silenzio.
Il primo passo per individuare migliori strategie di prevenzione del suicidio nelle Forze di Polizia non può che essere quello di abbattere lo stigma che circonda il fenomeno, iniziando a percorrere le seguenti tappe:
1) Costituzione di un Osservatorio Nazionale presso il Ministero dell’Interno a cui debbono affluire tutti i dati relativi ai suicidi ed a i tentati suicidi occorsi nelle Forze di Polizia a competenza territoriale sia generale che locale;
2) Organizzazione di un Convegno Nazionale sul suicidio nelle Forze di Polizia riservato agli addetti ai lavori, al fine di predisporre un algoritmo unico per la rilevazione di tali eventi, in modo da raccogliere dati omologabili, tali da risultare idonei a sviluppare concrete strategie preventive, oltre che permettere la definizione di un primo quadro complessivo del fenomeno;
3) Previsione, nella formazione di base di tutti gli operatori di Polizia, di un modulo specificamente indirizzato all’informazione sul fenomeno; alla sensibilizzazione circa i segnali di sofferenza mentale, potenzialmente sintomatici di una progettualità autolesiva; alla demitizzazione circa l’ineluttabilità della riforma dal servizio per coloro che evidenziassero problematiche della sfera psichica, stimolando un rapporto collaborativo e reciprocamente fiducioso fra il personale e le figure professionali presenti nelle singole istituzioni di appartenenza deputate alla tutela della salute degli operatori;
4) Promozione di iniziative istituzionali ed extra-istituzionali volte a destigmatizzare il disagio ed il disturbo mentale nelle Forze di Polizia, attraverso la presa di consapevolezza della potenziale vulnerabilità di ciascuno di noi di fronte alla sofferenza psichica, delle ottime prospettive di cura e di recupero per la gran parte delle patologie mentali, la evoluzione culturale e delle prassi operative di competenza dei Sanitari delle Forze di Polizia, l’attivazione di progetti di automutuoaiuto dedicati.

Luigi Lucchetti, Presidente AIGESFOS e Felix B. Lecce, Vice presidente AIGESFOS