Category: Stress Lavoro Correlato

Categoria: Stress Lavoro Correlato

Stress lavoro correlato nelle FF.OO

Gli scenari in cui  attualmente si declina qualsiasi attività lavorativa, pubblica e privata, sono caratterizzati da una congiuntura economica mondiale sfavorevole, dall’utilizzo massiccio di tecnologie specie di natura informatica, dall’aumento della competizione in ambito interno ed internazionale, dall’incertezza e dall’estremo dinamismo dei mercati, dalle fluttuazioni  demografiche  connesse all’immigrazione legale e clandestina nei paesi occidentali di ampie fasce di popolazione provenienti dai paesi più poveri.
Tutto ciò si traduce nella concreta realtà lavorativa in subentranti innovazioni nella progettazione, nell’organizzazione e gestione del lavoro,  aggravio nel carico e nel ritmo del lavoro, diminuzione fino a perdita di molte tutele sociali, elevate pressioni emotive, precarietà del lavoro e maggiori difficoltà a conciliare le esigenze lavorative con quelle della vita privata.

Per quanto attiene la realtà delle Forze di Polizia e del Soccorso, si è assistito in questi anni ad una progressiva e massiccia riduzione delle risorse economiche messe a loro disposizione, contrazione degli organici con diminuzione del turn-over ed innalzamento dell’età media dei dipendenti, a fronte di una maggiore richiesta di sicurezza e vicinanza di questi operatori da parte della società.  Inoltre vi è stato un incremento del fenomeno immigratorio legale e clandestino, l’aumento delle tensioni sociali anche come effetto della già citata crisi economica che ha investito il mondo occidentale, l’implementazione di strategie sempre più sofisticate da parte della criminalità comune ed organizzata, le minori risorse economiche a disposizione delle aziende per la sicurezza e, per chiudere questo elenco sicuramente in difetto, l’introduzione di molte nuove norme nei vari ambiti giuridici a cui gli operatori devono necessariamente attenersi.
Il D.lgs 81/2008, aggiornato dal D.lgs 106/2009, all’art. 28 ha posto in primo piano la problematica del rischio stress nel mondo del lavoro e delle organizzazioni, introducendo nell’ambito dell’obbligo generale per il datore di lavoro di valutare i  rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori, anche quello di effettuare tale procedura per quelli collegati allo stress lavoro-correlato. Nel fare ciò il decreto ha richiamato espressamente l’Accordo Quadro Europeo del 8/10/2004 che, recepito in Italia dall’Accordo Interconfederale del 9/6/2008, con l’attuale citata normativa viene di fatto introdotto nella nostra legislazione nazionale.
L’obiettivo generale dell’Accordo è quello di offrire ai datori di lavoro ed ai lavoratori (ed ovviamente ai loro rappresentanti) un quadro di riferimento normativo (ma anche di porsi come stimolo culturale) per individuare e prevenire o – in ultima ipotesi, se già presenti – gestire problemi di stress lavoro-correlato, accrescendo la consapevolezza e la comprensione di tutti i soggetti coinvolti, dal datore di lavoro agli occupati, della specifica tematica, attivando la loro attenzione sui segnali potenzialmente indicatori di tale condizione, senza correre il rischio di attribuire la responsabilità dello stress a singoli individui che ne evidenziassero le manifestazioni.
Lo stress viene definito non come una malattia in sé, ma come una condizione di tensione che, se prolungata, può ridurre l’efficienza dell’individuo sul lavoro e determinarne un cattivo stato di salute, oltre che divenire un rischio per la sicurezza, poiché riduce la percezione del rischio in generale ed altera i processi comportamentali necessari per la tutela della propria ed altri incolumità.
Dati europei indicano come si debbano valutare in svariate decine di milioni le giornate lavorative annualmente  perse a causa degli effetti dello stress lavoro-correlato, significando così come sia interesse di tutti: lavoratori, datori di lavoro, stato e società nel suo complesso, affrontare e quanto meno ridurre significativamente l’impatto di tale fenomeno.  Egualmente, nell’ambito delle Forze di Polizia e del Soccorso, si conferma come gli effetti disfunzionali, diretti ed indiretti, dello stress che origina dal lavoro rappresentino la principale causa di assenza dal servizio.
Anche per quanto riguarda lo stress lavoro-correlato, i  lavoratori non sono solo destinatari passivi di norme che hanno l’obiettivo di tutelare la loro salute e sicurezza, ma coinvolti attivamente nel processo di attuazione delle misure per prevenirlo, ridurlo e, quando possibile, eliminarlo.
Lo stress lavoro-correlato: aspetti normativi
Risulta utile definire lo stress da lavoro, o come recita l’Accordo Quadro Europeo lo stress lavoro-correlato, secondo le linee tracciate dal citato documento in modo da focalizzare la problematica anche sotto il profilo della normativa sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro:
A)     Lo stress viene definito in senso generale non come una malattia in sé, ma come una condizione di tensione, che se prolungata, può ridurre l’efficienza sul lavoro e determinare un cattivo stato di salute ed essere accompagnato da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica e sociale;
B)      Lo stress è la conseguenza di un divario tra richieste ed aspettative e capacità dell’individuo di corrispondervi, capacità che non sono identiche nei vari soggetti a parità di stimoli, né nello stesso soggetto in momenti diversi della propria vita di fronte ad identiche situazioni;
C)      Lo stress può avere origini sia nell’ambito lavorativo che extra-lavorativo, e le sue manifestazioni sono identiche qualunque sia il contesto di genesi: pertanto non esiste alcun indicatore assolutamente specifico di stress lavoro-correlato;
D)     Anche lo stress indotto da condizioni extra-lavorative può condurre a cambiamenti nel comportamento lavorativo, e ad una ridotta efficienza prestazionale;
E)      Un alto tasso di assenteismo, di rotazione del personale, frequenti conflitti interpersonali o lamentele da parte dei lavoratori sono alcuni degli indicatori che possono orientare per un problema di stress lavoro-correlato.
Lo stress lavoro-correlato si caratterizza per un insieme di reazioni fisiologiche, cognitive, emotive e comportamentali conseguenti alla percezione di aspetti avversi e nocivi del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro.
Presenta una connotazione soggettiva in quanto ogni lavoratore reagisce in maniera diversa agli stessi stimoli a cui sono esposti i propri colleghi, in rapporto alla sua struttura di personalità, all’esperienza di vita e di lavoro ed alla personale interpretazione delle situazioni problematiche.
Nell’approfondimento del fenomeno la ricerca scientifica ha posto l’attenzione su quattro elementi fondamentali:
Le richieste, intese come il livello di prestazione a cui il lavoratore è chiamato a corrispondere;
Il controllo, inteso come la possibilità di gestire il carico ed i ritmi di lavoro oltre che di ridurne la monotonia e la ripetitività ;
La ricompensa, intesa come forme di riconoscimento, gratificazione economica e non solo, conseguenti alle proprie prestazioni;
Il supporto: inteso come l’insieme delle risorse, soprattutto umane e relazionali, di cui l’individuo può disporre specialmente nelle situazioni e nei momenti problematici.
Quando questi quattro elementi risultano cronicamente in squilibrio tra di loro è molto probabile l’emergenza di problemi di stress lavoro-correlato.
L’individuazione di un eventuale problema di stress lavoro-correlato richiede una analisi di fattori oggettivi (gli stressori) come: la gestione dell’organizzazione e dei processi di lavoro, le condizioni in cui il lavoro viene svolto, la comunicazione e le informazioni a disposizione del lavoratore; e di fattori soggettivi, relativi alla personale modalità di affrontare le problematiche connesse al proprio ruolo ed impegno lavorativo.
Nonostante lo stress rappresenti uno dei principali effetti del disagio lavorativo, non se ne possono pertanto attribuire le cause esclusivamente alle disfunzionalità dell’organizzazione o, viceversa, alla risposta soggettiva del o dei lavoratori.  Esso si configura come il risultato di un processo in cui interagiscono sia gli stressori lavorativi che le caratteristiche dei lavoratori e le loro strategie di affrontamento (coping in lingua inglese) delle situazioni problematiche o comunque difficili da gestire.
Qualora si individui un problema di stress lavoro-correlato il datore di lavoro ha comunque l’obbligo di stabilire le misure per prevenirlo, eliminarlo o ridurlo, che possono essere di carattere collettivo, individuale o di entrambi i tipi.
Si deve segnalare che l’Accordo Quadro Europeo a cui fa riferimento la legislazione italiana non comprende la violenza, le molestie e lo stress post-traumatico significando che tali evenienze, pur se in capo alla responsabilità del datore di lavoro nei limiti e  secondo la normativa vigente di carattere penale e civile, non entrano a far parte del protocollo di valutazione standard dei rischi collegati al lavoro.
I fattori stressanti nelle Forze dell’Ordine e del Soccorso
La ricerca scientifica ha identificato e classificato i fattori stressanti in ambito lavorativo, ricomprendendoli in due grandi aree: il contesto e il contenuto del lavoro.
Nell’ambito del contesto lavorativo si distinguono i seguenti fattori:
– cultura e funzione organizzativa: riguarda la codificazione delle procedure di lavoro, la presenza di un definito organigramma aziendale, la qualità della comunicazione interna, la chiarezza degli obiettivi da raggiungere, ecc. ;
– ruolo nell’organizzazione: riguarda la chiarezza dei compiti e delle responsabilità di ciascuno, la presenza di conflitti o ambiguità di ruolo, la necessità di assommare più incarichi o di svolgere mansioni di livello superiore o inferiore al proprio ruolo, ecc.;
– sviluppo di carriera: riguarda le possibilità, le regole e le procedure relative alla crescita professionale, i livelli retributivi iniziali e successivi, la sicurezza del posto di lavoro, la considerazione sociale del lavoro, ecc. ;
– l’autonomia decisionale e il controllo: riguarda la partecipazione al processo decisionale, il grado di autonomia nello svolgimento del lavoro, la possibilità di ricevere una supervisione di supporto, la possibilità di conoscere l’evoluzione ed i risultati della propria attività, ecc.;
– rapporti interpersonali sul lavoro: riguarda le dinamiche di collaborazione e competizione, i conflitti interpersonali a livello orizzontale e verticale, e le modalità della loro gestione, ecc.;
– interfaccia casa-lavoro: riguarda le problematiche di conciliazione delle richieste lavorative con le esigenze famigliari, il travaso di stress nei due sensi tra l’ambito lavorativo ed extralavorativo, la facilità nel raggiungere il posto di lavoro, ecc. .
Nell’ambito del contenuto lavorativo vengono individuati i seguenti fattori:
– ambiente ed attrezzature di lavoro: riguarda i rischi di ordine fisico, chimico e biologico su cui si è concentrata l’attenzione della legge 626/94 relativi a: illuminazione, temperatura, correnti di aria, umidità, rumori, spazi a disposizione, condizioni igieniche, inquinanti, ecc.; i rischi per la incolumità fisica, la disponibilità ed idoneità di attrezzature e strumentazioni necessarie allo svolgimento(in sicurezza) del lavoro, ecc.;
– pianificazione e progettazione dei compiti: riguarda la certezza dei compiti da svolgere, la sovrapposizione dei compiti, la rigidità e monotonia della mansione, il sottoutilizzo della capacità ed abilità, la frammentarietà e la mancanza di significato del lavoro, ecc.;
– carico e ritmo di lavoro: riguarda carichi di lavoro eccessivi o scarsi, la possibilità di controllare il ritmo dell’attività, livelli elevati di pressione in relazione al tempo, la responsabilità per la vita e l’incolumità di terzi, la necessità di collaborare con operatori di altre organizzazioni, la necessità di entrare in contatto con soggetti di differente etnia o cultura, ed in generale con una utenza “ socialmente” difficile, ecc;
– orario di lavoro: riguarda il lavoro a turni, i turni notturni, orari di lavoro non flessibili, orari imprevedibili, superamento dell’orario ordinario, pause di lavoro troppo brevi o scarsamente definite, ecc.
Che cosa fare individualmente per sé e per i colleghi ( oltre a quanto di competenza del datore di lavoro)
Poiché il benessere organizzativo, ed il suo reciproco: lo stress lavoro-correlato, sono condizioni che vedono fortemente interessati e coinvolti tutti gli “attori” implicati nell’attività lavorativa, e premesso che nel determinare queste due dimensioni (benessere/distress) interagiscono fattori organizzativo-ambientali (esterni) e fattori personali-soggettivi (interni), è evidente che anche i singoli – oltre a dover mettere in atto le misure individuate dal datore di lavoro – possono fare la loro parte, per se stessi e per i colleghi, per ridurre o eliminare lo stress lavoro-correlato.
Qui di seguito vengono presentate delle indicazioni di massima per affrontare individualmente la sfida che lo stress pone ad ogni lavoratore, compresi gli operatori di polizia e del soccorso:
Farsi parte attiva nell’acquisire e far proprie le conoscenze essenziali sul tema “stress” e “stress lavoro-correlato”, imparando a riconoscere i segnali precoci di distress in sé stessi e negli altri;
Assumere un atteggiamento tendenzialmente attivo, di confronto con le situazioni problematiche, non confondendo le cause (gli stressori), con gli effetti (la risposta di stress), perché mentre sui primi potremmo non avere alcun controllo, sulla risposta di stress, che è personale, abbiamo sempre dei margini, più o meno ampi, per agire efficacemente a tutela della nostra salute;
Comprendere fino in fondo che gestire lo stress lavorativo, oltre ad essere un’incombenza giuridicamente prevista a carico del datore di lavoro, è un nostro personale e pressante “dovere” nei confronti di noi stessi, in quanto potenziali vittime dei danni alla integrità psico-fisica che lo stress può comportare;
Focalizzarsi e prendere consapevolezza di quali siano i nostri reali fattori di stress, lavorativi ed extra-lavorativi, di come essi si influenzino reciprocamente, di quali siano gli aspetti del proprio lavoro che creano maggiore tensione o disagio, di quali siano le usuali strategie adottate per affrontare le difficoltà ed il loro livello di efficacia;
– Dare un ordine di importanza a questi fattori, valutando i rispettivi margini di gestione a livello individuale, al fine di decidere le priorità nelle azioni personali da intraprendere per il miglioramento del proprio benessere;
Chiedersi quanto la propria percezione dell’ambiente lavorativo, di noi stessi implicati in quel contesto e di quanto di significativo vi ruota intorno sia realistica, ed in particolare se:
– Siamo in grado di distinguere ciò che è modificabile, e quindi almeno parzialmente sotto il nostro controllo, da ciò che non lo è, e pertanto può essere unicamente accettato
– Vi siano strategie alternative a quelle che stiamo adottando per affrontare meglio la situazione
– Eventuali conflittualità interpersonali derivino da punti di vista differenti sul contenuto del contendere, o se invece siano da attribuire a problematiche relazionali
– Siamo in grado di essere o divenire consapevoli di cosa e come stiamo comunicando, oltre che degli effetti che induciamo nei nostri interlocutori
– Siamo abituati a distinguere tra cose importanti ed urgenti, e pertanto a gestire nel modo migliore il nostro tempo sul luogo di lavoro (e non solo).
Prendersi cura del proprio corpo: dedicandosi ad una attività fisica regolare, curando la propria alimentazione in modo adeguato, controllando il peso corporeo, evitando o limitando sostanze nocive come tabacco, caffè, alcool; prendendosi delle giuste pause, evitando l’automedicazione con farmaci ad azione sul sistema nervoso (ansiolitici, ipnotici ecc.), imparando tecniche di rilassamento come la respirazione diaframmatica o il rilassamento muscolare progressivo, effettuando periodici check-up per il controllo della pressione arteriosa, dei valori glicemici e di colesterolo ecc;
Imparare a pensare e vivere “positivo”:
– Dicendosi “bravo/a” quando facciamo bene il nostro lavoro
– Ponendosi obiettivi a corto raggio e vivendo il senso di soddisfazione al loro raggiungimento
–  Approcciando il collega e/o l’utente senza pregiudizi negativi
–  Vivendo le critiche come possibilità di crescita e maggiore autoconsapevolezza, e non unicamente come affronto personale
– Imparando a cercare e trovare punti di accordo, vicinanza  e somiglianza con gli altri (sintonia), piuttosto che ipertrofizzando le distanze e le differenze (distonia)
– Riconoscendo che se il bicchiere è mezzo vuoto, vuol dire che almeno per l’altra metà è pieno
– Ricordando anche ciò che di positivo è stato ottenuto, conquistato, concesso e non solo quanto vi è ancora da migliorare e da raggiungere
– Rivedendo la nostra scala di valori e privilegiando nei fatti le persone e le cose a cui teniamo di più e che sono per noi veramente importanti
– Divenendo meno inflessibili con noi stessi, cercando qualcosa di meno della perfezione in se stessi e negli altri, prendendo consapevolezza che non si può prevedere e controllare tutto nella vita, ammettendo la prospettiva di dover chiedere aiuto agli altri per affrontare frangenti difficili
Imparare a pianificare le proprie attività ed a gestire intelligentemente il tempo, privilegiando le cose contemporaneamente importanti ed urgenti, poi quelle urgenti e non importanti, dopo ancora quelle importanti e non urgenti, ed infine quelle non importanti  né urgenti
Essere consapevoli che, oltre un certo limite, reprimere, nascondere o negare le proprie emozioni è una carta perdente, mentre la condivisione di stati d’animo difficili da gestire con persone di cui ci fidiamo è una grande risorsa a cui possiamo ricorrere
Mettere in conto la possibilità che nella vita, di fronte a momenti di particolare difficoltà sia di natura privata che conseguenti a fatti di servizio di una certa gravità – compresi quelli a valenza psicotraumatica –  può essere necessario ricorrere all’aiuto di un esperto di counselling, di un coach,  di uno psicoterapeuta, o di uno psichiatra, senza che questo significhi che siamo pazzi o “senza schiena”
Imparare a ridere di sé stessi, a fare una sana autoironia e a non prendersi troppo sul serio
Impegnarsi in attività di gruppo esterne all’ambiente di servizio: gruppi sportivi, di volontariato e promozione sociale, associazioni culturali, gruppi spirituali, ecc., i quali possono darci quegli stimoli e quelle gratificazioni che sono assenti o scarsi nel nostro ambiente lavorativo
Impegnarsi nel promuovere nell’ambito lavorativo lo spirito di squadra e una cultura improntata alla solidarietà ed al reciproco sostegno.

Luigi Lucchetti, presidente on. di AIGESFOS-APS
Felix B. Lecce, presidente di AIGESFOS-APS

 

Lo stress cronico: la sindrome del burnout negli operatori delle forze dell’ordine e del soccorso

“Le persone pagano un prezzo molto alto per fare da guardiani ai propri fratelli e sorelle” (Cristina Maslach).

Nelle professioni di aiuto, oltre alle competenze tecniche, è richiesto un rapporto emotivo con le persone, fattore che risulta centrale nello svolgimento dell’attività lavorativa.
In questa tipologia di professioni la pressione emozionale derivante dallo stretto contatto con la gente è una componente costante dell’attività lavorativa quotidiana. Pensiamo ad esempio a medici, vigili del fuoco, operatori di polizia, insegnanti assistenti sociali, operatori della salute mentale, ecc.
Il seguente contributo si focalizzerà sui rischi psicologico-relazionali evidenziando l’alto prezzo che può essere “pagato” dagli operatori delle Forze dell’Ordine e del Soccorso e le strategie di supporto che possono essere impiegate per affrontarli e ridurli.
Sindrome del burnout
Burnout: termine introdotto nel 1974 da Herbert J. Freudenbergen per indicare un quadro sintomatologico caratteristico di operatori di servizi comunitari particolarmente esposti a condizioni di tensione dovuta ad un rapporto diretto e continuativo con una utenza particolarmente disagiata o difficile.

Traduzione in italiano di “burnout”: scoppiato, bruciato, usurato, cortocircuitato, esaurito, fuso, cotto.

“Una sindrome di esaurimento fisico ed emotivo che porta allo sviluppo di un concetto negativo di sé, un’attitudine negativa verso il lavoro, e la perdita di empatia e di interessi nei confronti dell’utenza” (Pines, Maslach)

Le tre dimensioni costitutive della sindrome del burnout
1. l’esaurimento emotivo: la sensazione di ritrovarsi sfiniti, logorati, inariditi, svuotati delle proprie energie e risorse emotive, come conseguenza del costante sovraccarico emozionale indotto dal lavoro in stretto contatto con l’utente.

2. la depersonalizzazione: l’insieme di atteggiamenti negativi fino al cinismo maturati nei confronti delle persone a cui è indirizzata la prestazione e che danno origine all’agire freddo, meccanico e distaccato spesso manifestato dagli operatori colpiti dalla sindrome.

3. la ridotta realizzazione professionale: il declino del proprio senso di competenza e di efficacia professionale ed il prevalere di una sensazione di inadeguatezza, o meglio di una autovalutazione negativa espressa sia nei confronti di se stessi che della complessiva prestazione lavorativa espletata in favore degli utenti.

Chiave interpretativa del burnout
Alcuni autori ritengono che il burnout derivi da una mancanza di reciprocità sperimentata nelle relazioni sociali di scambio, ad un livello sia interpersonale che organizzativo.

Le Helping Professions sono professioni caratterizzate da un ruolo “genitoriale” in cui l’operatore è chiamato sempre a dare, mentre nei più comuni rapporti umani dare ed avere sono compresenti. Infatti l’umanità a cui queste professioni (poliziotti, medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, religiosi, operatori sociali) sono rivolte ed a cui sempre “dare” è quella sofferente, debole, bambina o deviante.
La mancanza di reciprocità si sperimenta quando si percepisce che le energie investite non sono proporzionali alle “ricompense” ottenute in cambio.

Le manifestazioni somatiche del burnout
o senso generale di affaticamento ed esaurimento;
o insonnia, incubi;
o disturbi gastrointestinali ed ulcera;
o mal di schiena, vulnerabilità alle infezioni;
o cefalee frequenti, palpitazioni, dispnea;
o modificazione delle abitudini alimentari in eccesso o in difetto con conseguenti cambiamenti ponderali;
o difficoltà nella sfera sessuale.

Le manifestazioni psichiche del burnout
o senso di incapacità e di impotenza, apatia;
o ansia, rigidità del pensiero, paranoia;
o ossessioni, fobie;
o persistenti sensi di colpa, depressione fino al suicidio (eccezionalmente);
o atteggiamento negativo verso se stessi, il lavoro, gli altri e la vita in generale;

Le manifestazioni comportamentali del burnout
o condotte di ritiro ed isolamento;
o incapacità di chiedere aiuto e di fruire di una rete di sostegno;
o difficoltà di concentrazione, fuga dalle responsabilità;
o irritabilità e risentimento, conflitti interpersonali ed antagonismo;
o diminuzione dei contatti con l’utenza;
o frequenti ritardi sul posto di lavoro, assenteismo;
o rendimento lavorativo ridotto;
o ricorso all’alcool, sostanze stupefacenti o farmaci psicotropi;
o divorzio, dimissioni, comportamenti violenti;
o coinvolgimento in problematiche penali, civili e disciplinari.

Conseguenze negative del burnout
Livello individuale: sofferenza fisica ed emotiva dell’operatore con riflessi negativi sull’ambiente familiare e le relazioni interpersonali intime;

Livello dell’ambiente lavorativo: contrasti interpersonali, ridotto rendimento, assenteismo, fuga dalle proprie responsabilità, danno all’immagine dell’istituzione;

Livello dell’utenza: diminuzione della qualità e quantità dei servizi fruiti, vissuti di spersonalizzazione, perdita di fiducia nelle istituzioni che erogano servizi alla persona.

Livello della società: danni economici connessi ai punti precedenti, maggiore prevalenza dei disturbi mentali e da uso di sostanze, aumento dei contenziosi legali, sfiducia verso i programmi di intervento sociale, per la salute e la sicurezza attuabili dallo Stato.

Livello di analisi del burnout
Individuale: centrato sulle caratteristiche socio-demografiche (sesso, stato civile, età, livello culturale, anzianità di servizio, ecc.) e personologiche;

Organizzativo-ambientale: indirizzato a fattori come le caratteristiche dell’utenza ed il tempo trascorso con essa, il rapporto con colleghi e superiori, le prospettive di carriera, le modalità della supervisione, le caratteristiche dell’ambiente lavorativo, i vincoli burocratici all’interno dell’organizzazione;

Socio-culturale: rivolto a caratteristiche quali il riconoscimento sociale di determinate professionalità, l’atteggiamento nei confronti degli errori attribuiti a questi operatori, la trasformazione subita da alcune istituzioni in conseguenza dei mutamenti socio-culturali, i problemi socio-economici incidenti sulle modalità di svolgimento di particolari attività lavorative.

“Soffermare l’attenzione unicamente sulla personalità degli operatori colpiti dalla sindrome sarebbe come scegliere di “analizzare la personalità dei cetrioli per scoprire perché sono diventati sottaceti, senza però analizzare il barile di aceto in cui sono stati immersi!” (Cristina Maslach)

Analogamente inopportuno sarebbe cercare dei capri espiatori in quanto “Il fenomeno è tanto diffuso, le persone colpite tanto numerose, le loro personalità e retroterra tanto vari che non ha senso identificare nei <<cattivi>> la causa di quello che è chiaramente un risultato indesiderabile”. (Cristina Maslach)

Fattori specifici che possono contribuire allo sviluppo del burnout nelle Forze dell’Ordine
1- Conflitto o ambiguità di ruolo: si determina quando un operatore di polizia percepisce una incompatibilità tra il comportamento richiesto dal proprio ruolo e le motivazioni ed i valori personali, o uno scompenso fra le richieste della situazione lavorativa e le risorse individuali. Si deve al riguardo osservare come a partire dagli anni ’80 il livello culturale degli operatori di polizia si sia notevolmente innalzato anche e soprattutto nei ruoli più propriamente esecutivi, determinando oggettivamente un divario fra livello del compito svolto e consapevolezza del proprio valore e delle ambizioni personali.

2- Conflitti con i superiori: l’aumentata dialettica con la gerarchia che si è registrata successivamente alla smilitarizzazione ed al diritto di rappresentanze sindacali può rappresentare un fattore che, attraverso le tensioni che si innescano nell’ambiente lavorativo, contribuisce all’insorgenza dell’esaurimento emotivo che per molti rappresenta la spinta iniziale per l’evolversi della sindrome.

3- Conflitti con i colleghi: derivanti dalla rivalità e dalla competizione interpersonale che si accentuano generalmente in mancanza di una leadership autorevole. Il supporto dei colleghi viceversa rappresenta un fattore protettivo nei confronti delle situazioni stressanti e dei momenti di crisi.

4- Incidenti critici: le sequele psicologiche non adeguatamente superate di eventi a forte impatto emotivo possono contribuire allo sviluppo della sindrome.

5- Mancanza di un’adeguata supervisione: il maggiore livello culturale degli operatori di polizia, la più generale tendenza all’individualismo presente nella società, l’aumentato carico di responsabilità assunto dai ruoli superiori con diminuzione del tempo a disposizione per le singole attività, il divario generazionale che man mano tende ad incrementarsi anche fra soggetti con pochi anni di distanza anagrafica, contribuiscono a “sfocare” l’importanza di un’adeguata supervisione che riveste invece un fattore protettivo nei confronti del burn-out.

6- Difficoltà nelle relazioni familiari: il rapporto fra relazioni familiari e burn-out è bidirezionale; se da una parte più alti livelli di burn-out implicano maggiori tensioni familiari, dall’altra importanti difficoltà in ambito familiare contribuiscono a generare maggiore stress e rischio di burn-out.

7- Difficoltà ad esprimere i propri sentimenti ed emozioni: molti ritengono che questo sia uno dei principali fattori responsabili dell’insorgenza del burnout. Ciò è dovuto sia a fattori culturali che vogliono il poliziotto distaccato ed imperturbabile, che alle caratteristiche del contesto organizzativo, il quale induce gli operatori a mantenere un aspetto esteriore di professionalità, anche quando si fa schermo di sentimenti ed emozioni che rimangono inespressi.

8- Limiti della formazione professionale: specialmente in passato causati da necessità di immettere rapidamente in servizio gli operatori per le pressanti esigenze di sicurezza; la formazione risente di limiti culturali del nostro paese in cui si tende ancora a privilegiare nettamente l’istruzione rispetto all’acquisizione del saper fare e del saper essere.

Ricerche sulla sindrome del burnout nelle forze dell’ordine italiane
Gli studi relativi alle forze dell’ordine italiane sono scarsi e condotti su un numero limitato di operatori di polizia. dagli stessi si possono ricavare le seguenti indicazioni di massima:
• Le donne dichiarano livelli di burnout superiori a quelli degli uomini (esse sono solamente più sincere o viceversa più a disagio?);
• Gli uomini evidenziano un maggior grado di soddisfazione lavorativa (perché impiegati in mansioni più significative o perché meno sinceri?);
• I soggetti che hanno un punteggio medio più alto nella scala del burnout sono quelli ai primi anni di servizio (ciò a causa di una tipologia di impiego più gravosa o in quanto non hanno ancora sviluppato adeguate strategie di coping?);
• Gli operatori di polizia che hanno un’anzianità di servizio tra gli 11 e 20 anni evidenziano maggiori livelli di soddisfazione lavorativa (perché più effettivamente realizzati nel lavoro o in quanto hanno attese più realistiche riguardo lo stesso?)
Le due dimensioni del burn-out e della soddisfazione lavorativa, appaiono comunque inversamente proporzionali.
• I punteggi più bassi vengono registrati nei soggetti che svolgono attività investigativa: ciò sembra confermare che il feedback positivo che si ricava dalla propria attività lavorativa rappresenta un fattore protettivo nei confronti del burn-out;
• Per quanto riguarda le variabili demografiche l’unico elemento significativo riscontrato è quello della correlazione negativa fra burn-out e numero dei figli. ciò sembra poter essere spiegato con le maggiori risorse di coping acquisite da chi è abituato a risolvere i problemi con i figli, e con la minore polarizzazione sul lavoro di chi ha una famiglia e dei figli riguardo alle attese di realizzazione personale.

Linee guida: Strategie per promuovere il benessere nelle forze dell’ordine e ridurre il rischio di burnout
• realizzare un turn-over più attento nelle attività maggiormente a rischio di burnout;
• aumentare le possibilità di progressione di carriera con un maggior ricorso al reclutamento dall’interno dell’istituzione attraverso il bando di concorsi interni;
• investire maggiori risorse nella formazione indirizzata a fornire:
o competenze adeguate per sviluppare una leadership autorevole da parte dei ruoli superiori;
o competenze adeguate di carattere relazionale per i ruoli più direttamente a contatto con l’utenza;
o conoscenze approfondite riguardo la problematica generale dello stress lavorativo, ed in particolare del burn-out, e delle strategie di coping per affrontarlo;
o consapevolezza degli aspetti conflittuali impliciti nella vita lavorativa e delle possibilità di confronto con tali situazioni;
o potenziamento delle competenze comunicative sia per quanto riguarda le relazioni interne che nei confronti dell’utenza.

Stress lavorativo e malattie cardiovascolari nel personale delle forze di polizia

Le malattie cardiovascolari, ed in particolare l’ipertensione arteriosa e la cardiopatia ischemica, sono tra le infermità per le quali più frequentemente gli operatori di polizia inoltrano la domanda per la dipendenza da causa di servizio.
Nella maggior parte dei casi (circa il 90%) non è facile stabilire con certezza le reali cause all’origine della patologia ipertensiva. Sono noti alcuni fattori predisponenti, che nel loro insieme, favoriscono la comparsa della malattia, di seguito riportati:
aumentato tono del sistema nervoso simpatico
diminuita capacità del rene ad eliminare sodio
fattori genetici
fattori alimentari
condizioni di stress sociale
sedentarietà
invecchiamento.
L’ipertensione secondaria, ovvero quella forma di ipertensione che insorge come conseguenza di altre malattie, ha invece delle cause di origine ben definite. Questa patologia che rappresenta soltanto il 5-10% di tutti i casi di ipertensione può essere causata da:
malattie del rene
malattie dei grandi vasi (coartazione aorta)
malattie endocrine
farmaci (cortisonici, amine simpaticomimetiche).
L’ereditarietà o familiarità della patologia influisce per circa il 30% sulla possibilità d’insorgenza dell’ipertensione. Per questo motivo un soggetto che ha dei familiari ipertesi, avrà un maggior rischio (ma non la certezza assoluta) di sviluppare la malattia.
Nella persona anziana l’ipertensione è legata soprattutto ad un aumento della pressione massima o sistolica, mentre nella fascia di età compresa tra i 20 ed i 50-55 anni si registra solitamente un aumento sia della massima che della minima.
L’uomo ha un rischio elevato di sviluppare la malattia intorno ai 30-40 anni. Nelle donne tale rischio, inferiore prima della menopausa, arriva dopo i 45-50 anni fino al 50% per poi aumentare ulteriormente dopo i 65 anni.
La dieta ideale rivolta alla prevenzione e/o alla cura dell’ipertensione ha come obiettivi principali il calo ponderale e la restrizione di sodio ed alcol. Nello stadio iniziale della malattia, denominato pre-ipertensione, molto spesso la semplice correzione delle abitudini dietetiche è sufficiente a diminuire i valori pressori.
La ridotta attività fisica costituisce un altro importante fattore di rischio.
Il fumo di sigaretta è un potente vasocostrittore, riduce l’ossigenazione dei tessuti e facilita la formazione di placche aterosclerotiche. L’alcol, a piccole dosi ha invece un effetto benefico grazie alle sue proprietà vasodilatatrici, effetto che si inverte quando assunto a grandi dosi.
In molti casi lo stress psichico influisce a tal punto sulla comparsa dell’ipertensione da essere considerato il principale fattore causale. Tra le condizioni più a rischio vi sono: collera trattenuta, ricorrenti arrabbiature, intense emozioni, gravose responsabilità lavorative o eccessivo impegno nel lavoro.
L’esposizione cronica al rumore potrebbe avere un ruolo nell’ipertensione arteriosa, attraverso un meccanismo d’azione stress-correlato. La fisiologica e transitoria risposta di stress al rumore indotta dal sistema nervoso simpatico e dal sistema neuroendocrino diverrebbe patologica quando attivata cronicamente e ripetutamente. Così il temporaneo incremento della pressione sanguigna, diventando permanente, genererebbe una condizione di ipertensione.
Il termine cardiopatia ischemica racchiude in sé uno spettro di condizioni patologiche in cui si verifica una discrepanza tra il consumo e l’apporto di ossigeno al miocardio.
All’origine della cardiopatia ischemica possono esserci numerose patologie, tutte accomunate dal diminuire l’apporto di sangue al cuore.
Tra queste le forme più comuni di manifestazione clinica sono:
Sindromi coronariche croniche:
angina cronica stabile o da sforzo
Sindromi coronariche acute:
angina instabile
infarto miocardico
insufficienza cardiaca
morte improvvisa
ischemia silente.
La causa principale della cardiopatia ischemica è la malattia aterosclerotica a carico delle arterie coronariche.
L’aterosclerosi è una malattia degenerativa che favorisce il deposito di aggregati di grassi ed altre sostanze nella parete interna delle arterie. Tali depositi diminuiscono il lume vasale e l’elasticità delle pareti. Costretto a passare in un vaso di calibro ristretto, il sangue subisce un aumento di pressione mettendo a rischio l’integrità stessa dell’arteria.
Il restringimento, quando diventa importante, altera la normale circolazione in quanto favorisce la formazione di trombi che si possono staccare dalla placca arterosclerotica ed andare ad ostruire vasi di calibro minore. Lo stesso trombo, oltre a restringere direttamente il vaso, agisce anche indirettamente favorendo la sintesi di trombossano, un potente vasocostrittore.
All’interno delle coronarie, quando l’ostruzione raggiunge il 50%, cominciano a presentarsi problemi piuttosto seri, dato che quel vaso non è più in grado di soddisfare completamente le richieste metaboliche delle cellule irrorate.
L’ischemia locale altera il comportamento elettrico dell’intero cuore generando aritmie che possono mettere in serio pericolo l’efficienza della pompa cardiaca. Contemporaneamente il ridotto afflusso di sangue ed ossigeno diminuisce per meccanismo riflesso la forza di contrazione cardiaca, aggravando ulteriormente la situazione.
La gravità e la durata dell’ischemia determina la reversibilità o meno del danno cardiaco. Se l’ischemia perdura nel tempo, la cellula cardiaca può sopportare per circa 20-360 minuti la carenza di ossigeno e nutrienti, dopodichè muore. La necrosi cellulare viene chiamata infarto e se coinvolge un numero importante di cellule può essere fatale per l’individuo.
Una volta morte, queste cellule non riacquistano più la loro funzionalità, ma vengono sostituite da tessuto cicatriziale fibroso elettricamente e meccanicamente inerte.
L’angina è invece un ischemia miocardica transitoria con carattere di reversibilità. Si definisce stabile se si associa a sforzo fisico costante e non subisce modificazioni significative nel tempo, instabile se è di recente insorgenza, ingravescente e compare anche a riposo.
I fattori di rischio della cardiopatia ischemica sono rappresentati da:
fumo
diabete mellito
dislipidemia
ipertensione
sedentarietà
obesità
iperomocisteinemia
condizioni di stress.
Sia l’ipertensione arteriosa che la cardiopatia ischemica rappresentano dunque malattie a genesi multifattoriale, in cui entrano in gioco fattori endogeno-costituzionali (come per esempio la familiarità), ed altri ambientali.
Tra questi ultimi, come detto, in ambedue i casi, vi è il ruolo svolto dallo stress psico-fisico, con meccanismi patogenetici noti e ben descritti in letteratura. Il ruolo dello stress è molto importante perché rappresenta il fattore di gran lunga più invocato a sostegno della dipendenza da causa di servizio delle infermità cardiovascolari da parte di molte categorie di lavoratori.
L’associazione tra stress e cardiopatie è infatti molto antica: Galeno, già nel 170 d.C., nel Microtechne, affermava che “le intense emozioni possono provocare disturbi del ritmo cardiaco”.
La letteratura ha messo più volte in evidenza come determinate modalità di lavoro siano associate con un rischio elevato di sviluppare ipertensione arteriosa, che è indipendente ed additivo rispetto al rischio conferito all’aumentare dell’età.
Di contro, è pure noto come modificazioni dello stile di vita, dei regimi e dei ritmi lavorativi possano comportare notevoli benefici nel controllo della ipertensione arteriosa. Uno dei motivi che facilitano il controllo dell’ipertensione arteriosa nei pazienti ospedalizzati è infatti, per quanto attuabile, lo stato di isolamento dagli stress emotivi e ambientali. In rari casi è addirittura necessario l’abbandono di determinate attività lavorative.
Dal punto di vista fisio-patologico lo stress lavorativo può costituire un fattore di rischio cardiovascolare con meccanismi sia diretti che indiretti. I primi si riferiscono all’attivazione neuro-ormonale e neurovegetativa, in relazione ai comportamenti attivi e passivi necessari per affrontare determinati compiti ed attività, con stimolazione del sistema nervoso autonomo e aumentata secrezione neurormonale, soprattutto di catecolamine e cortisolo. Gli effetti che ne conseguono agiscono sulla pressione arteriosa, sul ritmo e sulla frequenza cardiaca, sulla circolazione periferica, sui processi emo-coagulativi, sul metabolismo glucidico e lipidico. I meccanismi indiretti sono rappresentati da modificazioni degli stili di vita (alimentazione, scarsa attività fisica, abitudine al fumo ed al consumo di bevande alcoliche), nonché dalle interferenze sul piano psico-relazionale, sia in ambito familiare che sociale.
Particolare importanza nel condizionare gli effetti sulla salute hanno le modalità di risposta (coping) più o meno adeguate che il soggetto è in grado di mettere in atto; oltre che dalla intrinseca complessità del compito, esse dipendono dalle singole capacità dell’individuo, con interferenza di numerosi fattori quali: la regolazione del sistema nervoso autonomo (a partire dal ritmo sonno/veglia), le condizioni ambientali (ad es. rumore, illuminazione, ecc.), l’assunzione di farmaci o di alcol, la presenza di malattie concomitanti, la spinta motivazionale, lo stato emotivo, ecc.
Lo stress in gioco è di tipo sub-acuto o cronico, ossia riferibile a quelle condizioni lavorative in cui vi è una prolungata e persistente situazione di mancata o ridotta possibilità di “controllo” del lavoro, condizionato da carichi di lavoro eccessivamente elevati, scarsa prevedibilità, necessità di costante attenzione, persistente presenza di pericolo e di rischio.
In termini generali, dagli studi più autorevoli emerge una relazione abbastanza chiara tra cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa e alcune condizioni di lavoro, in particolare i lavori caratterizzati da scarsa attività fisica, i compiti ad alta richiesta psichica, ma con scarsa capacità di controllo, e il lavoro a turni (con rischio che aumenta in relazione all’anzianità di turno).
In un lavoro che ha criticamente preso il rapporto tra strain lavorativo e cardiopatia ischemica, effettuato in gruppi di lavoratori maschi di diversi settori lavorativi, tra il 1983 e il 1998, si è evidenziata una associazione significativa tra attività lavorative comportanti alte richieste psicologiche, sia con la morbilità per angina pectoris che con la mortalità per infarto del miocardio. Anche in relazione alla pressione arteriosa, vi sono molte evidenze per una relazione positiva tra stress lavorativo ed ipertensione arteriosa.
Murphy, in una ricerca avente per oggetto l’associazione tra 32 diverse caratteristiche del lavoro e le condizioni di disabilità dovute a malattie cardiovascolari, ha rilevato come le quattro condizioni maggiormente associate a tali patologie siano rappresentate da:
situazioni di pericolo;
attività che richiedono alti livelli di vigilanza e di responsabilità verso gli altri;
compiti con elevati livelli di scambio di informazioni;
controllo di apparecchiature complesse.
È dimostrato come tali condizioni, ben presenti nel lavoro di un operatore di polizia, siano correlate allo stress occupazionale e costituiscano un indubbio fattore di rischio per malattie cardiovascolari, con particolare riferimento alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa. Importanti studi evidenziano poi fattori di rischio aggiuntivi per la cardiopatia ischemica nel personale di polizia penitenziaria, professione particolare, a ragione delle insidiose dinamiche psicopatologiche dei contenuti di questa attività lavorativa.
Nonostante questi dati, nella quasi totalità dei casi inerenti il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio dell’ipertensione arteriosa, il Comitato di Verifica si esprime negativamente. L’ambito giuridico di riferimento, peraltro, consentirebbe, in teoria, anche il riconoscimento dell’aggravamento di patologie preesistenti al rapporto di impiego, comprese quelle di natura endogena o addirittura congenita, sempreché se ne dimostri un più rapido aggravamento (ai sensi dell’art. 2 comma 2 del DPR 461/01).
Seppure l’appartenenza a categorie lavorative a rischio (nel caso delle malattie cardiovascolari ampiamente comprovata dalla letteratura scientifica quella dell’operatore di polizia) non possa comunque comportare il pregiudiziale riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di patologie stress-correlate come l’ipertensione arteriosa e la cardiopatia ischemica, è chiaro come l’analisi medico-legale, partendo dai contenuti ineliminabili della particolare prestazione lavorativa (costante stato di allarme, responsabilità verso terzi, pericolo per la propria incolumità, necessità di contrastare situazioni di urgenza, ecc.) debba accertare: 1) la qualità ed il quantum di questi fattori e 2) la presenza di ulteriori situazioni che possano giocare un ruolo nel determinismo della patologia (turnazioni, entità di lavoro straordinario effettuato, eventi critici di servizio, ecc.).
L’analisi della predisposizione endogeno-costituzionale, certamente importante, non deve quindi assumere il significato di elemento esclusivo per la formazione del giudizio medico-legale, soprattutto alla luce dell’ambito giuridico di riferimento, ma va confrontata con tutti gli altri fattori in gioco.

di Fabrizio Ciprani, Specialista in Medicina Legale e Medicina del Lavoro